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FUGA DALLA PITTURA
Una conversazione con Luca Alinari
di Alessandro Tempi
pubblicato il 30/08/2008
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Alessandro Tempi: Ricordo una tua mostra
allestita al Palazzo delle Cento Finestre di Firenze. Le sale
che ospitavano i tuoi quadri avevano bellissimi soffitti stupendamente
affrescati. Alzando gli occhi dai tuoi lavori fino a quegli
affreschi, non si poteva fare a meno di avvertire l'affiorare
di uno strano rapporto fra quel genere di immaginario che governa
questi ultimi ed i tuoi quadri, poiché anche in essi
vi é una chiamata a raccolta di immagini, di segni, di
figure che rimandano ad un preciso universo visuale. Avvertivo
insomma qualcosa di più di una coincidenza occasionale,
anche se, probabilmente, del tutto inintenzionale per gli allestitori.
Sentivo insomma che in quel momento stavo percependo tutta la
forza, tutto il potere dell'analogia, o, se vuoi, della simmetria.
Luca Alinari: Questa é un'osservazione che presuppone
un atteggiamento corretto verso il mio lavoro e cioè
l'atteggiamento dell'occhio. Il mio lavoro vuole una lettura
retinica, al di là del presupposto concettuale (che,
credo, può esserci ed in qualche caso vi sia effettivamente).
Ma tu hai percepito questa analogia retinica, che é qualcosa
di visivo che accomuna l'operare mio con l'operare dell'anonimo
artista settecentesco. Del resto, ho sempre pensato che un pittore
può non esser del tutto consapevole razionalmente del
proprio lavoro. Il quale può andare al di là delle
intenzione dell'autore stesso ed avere vita propria ed esiti
sempre nuovi.
AT: Fra questi esiti collocherei senz'altro quella dimensione
narrativa che molti individuano nei tuoi lavori e che credo
discenda dalle modalità assemblative in cui si organizza
il tuo universo formale. Senza dubbio l'atto del narrare, oggi,
é diventato una specie di vettore di un modo altro di
interpretare l'esistente: la fiction sta diventando un tentativo
di tenere assieme i tasselli confusi e sparsi di un mosaico
sempre più incomprensibile od inarrivabile. Come dice
Wenders, narrare é una menzogna necessaria. Ora, il narrare
presuppone anche in questo caso un'istanza di possesso, di controllo
o se vuoi di riordinamento del reale. Narrare é anche
dare un nome a questo mondo. Ma nel tuo lavoro il discorso mi
sembra diverso; esso mi sembra concentrarsi non tanto su qualcosa
cui cercare di dare un nome, quanto su qualcosa da cui siamo
chiamati. Una seduzione, insomma, in cui l'attrazione irresistibile
conta più del possesso.
LA: Entrambe le osservazioni, la tua e quella di Wenders, mi
sembrano molto appropriate e da esse si possono trarre molte
considerazioni. Te ne do una molto soggettiva (d'altronde é
forse questo che qui si vuole). In effetti, si é spesso
parlato di racconto, circa la mia pittura, ma perché
in essa vi é sempre stata una suggestione letteraria,
che ad esempio é stata suggerita da alcuni titoli dei
miei lavori, che forse hanno valenza letteraria. Questa può
essere una spia, non so fino a che punto esatta, della presunta
narratività interna al mio lavoro. In realtà,
però, un quadro di per se stesso é privo della
durata narrativa, é un qualcosa di immediato, quindi
risulta giusto quello che dicevi: é più un luogo
di seduzione che non lo svolgersi di una storia. Talvolta tuttavia
ho scritto delle parole nel quadro. Quindi un'allusività
interna c’è ed in questo senso si può parlare
di racconto. Ma come nasce, più o meno consapevolmente,
questo racconto ? Con l'impianto formale. Nel momento in cui
costruisco formalmente il quadro, allora costruisco anche il
racconto, che si avvale delle figure ormai tipiche - permettimi
di dirlo - della mia iconografia. Ora, il punto é che
le leggi attraverso cui la organizzo sono il tema stesso del
quadro. Queste leggi non le conosco; so che ci sono. Forse sono
le leggi di formazione e di equilibrio di un'opera. Forse sono
la struttura per leggere una realtà.
AT: Mi sembra allora che nella tua pittura la seduzione
delle apparenze contenga in sé la presa d'atto di una
certa impossibilità della rappresentazione (e quindi
anche della pittura stessa) a svolgere la propria funzione e
che pertanto al centro del tuo lavoro vi sia anche la necessaria
accettazione che l'unica possibilità della pittura stia
appunto nel riconoscere questa impossibilità e trasferirla
su un piano poetico o, come tu dicevi, di costruzione formale.
Rimane il fatto che pare estremamente difficile una conciliazione
fra le istanze della costruzione formale e questo consapevole
allontanamento, o fuga, dalla funzione rappresentativa.
LA: Forse non cerco conciliazioni fra termini contraddittori.
Non vorrei parlare di un'opera che si chiude e si avvolge continuamente
in se stessa o dei perché della forma come tema continuo
dell'opera stessa. Eppure un circuito chiuso é innegabile.
E questa é una forma di consapevolezza che vena tutto
il mio lavoro: avvertire continuamente i limiti del mezzo pittorico
e nello stesso tempo saperne la concomitante, intrinseca necessità
per riallacciarsi alle cose. Fuga, allora, significa allontanamento
da una pittura che nasce da pittura, per una pittura che nasce
da un tentativo di contatto con la realtà. Quale realtà
? Diciamo semplicemente la realtà irriducibile, irriducibile,
tanto per fare una citazione, alla riproducibilità tecnica,
la realtà delle cose vere: natura, anarchia della natura.
E questo che mi interessa della natura: l' "anarchia dei
piccoli rami". E' questa, per me, la realtà.
AT: Quindi, qualcosa che non può essere culturalizzato.
LA: cultura può anche essere una forma di degrado.
AT: Nel senso che temi questa odierna, grande operazione
di culturizzazione di massa ? La nostra civiltà dell'informazione
sta rapidamente diventando un immenso museo permanente ove si
cataloga automaticamente ogni singolo dato, si museifica prodigamente
ogni artefatto, si archivia e si culturizza senza un vero scopo
preciso che non sia quello della autoaccumulazione. I tuoi timori
vanno in questa direzione, oppure attengono ad un versante di
radicalità naturistica ?
LA: Forse a nessuno dei due casi, ma casomai più vicino
al secondo. Penso cioè che la cultura ci renda poveri,
ci impedisca la comprensione delle cose. Essa ci aiuta a capire
la cultura stessa, ma niente più. Non parlo della cultura
di alto livello scientifico; forse quella arriva agli enigmi
dei meccanismi, dei processi creativi. Lì siamo nella
pura ricerca e la cultura ne é la punta di diamante.
Parlo dei rapporti fra gli uomini, dei rapporti interpersonali,
che poi sono il tema del mio lavoro. Ogni tanto ci sono figure
nei miei quadri, figure che non parlano, che non ascoltano,
che non guardano. Sono figure che vogliono rappresentare soltanto
un enigma di comunicazione e nient'altro. Credo che in questo
settore la cultura giochi un ruolo di impoverimento, piuttosto
che di arricchimento.
AT: Vi é forse una qualche istanza etico-morale in
questa tua posizione così critica ?
LA: Purtroppo sì. Nonostante io sia un pittore che sperimenta
il formalismo della pittura, un pittore che ha affidato alla
radiazione dei colori moltissime delle sue istanze espressive,
nonostante tutto questo, non sento felicemente risolto un quadro
solamente sul piano formale. Non voglio entrare nella questione
forma-contenuto (ma forse ci siamo già dentro senza saperlo).
Ritengo comunque che una tal quale indignazione di tipo morale
sia necessaria al pittore. La pittura é per sua natura
utopistica. E' spesso dall'inadeguatezza della realtà
ad una certa idea che scatta infatti l'idea di un quadro, la
voglia stessa di dipingere....
AT: Verso cosa esattamente é rivolta, allora questa
tua indignazione ? Verso la cultura come forma di degrado, come
dicevi prima, oppure é più un'indignazione di
tipo etico contro l'incomprensione che si avverte continuamente,
ad esempio, fra uomo ed uomo ?
LA: Indignazione é una parola giusta, ma funziona solo
ad un livello: di indignazione morale e quindi necessariamente
porta ad una lettura sociale della realtà. E va bene.
Però non é quella la cosa che sostanzialmente
mi interessa. Con questi strumenti si può fare cattiva
pittura. Preferirei allora parlare di stupore, lo stupore di
comprendere le difficoltà a discernere, a dividere, ad
individuare il punto di disgiunzione, il confine fra natura
e cultura. Entrambi così mescolati per me sono fonte
di stupore. Mi spiego: é qualcosa che si concretizza
nella vita quotidiana, nell'agire, o meglio nei sentimenti che
determinano poi l'agire. Nell'amore, negli affetti, nelle cose
fondamentali, é lì che la cultura interviene,
modificando, alterando, scardinando: che cosa ? L'idea stessa
dell'uomo e di noi stessi.
AT: Verrebbe da chiedersi da quale parte stia allora, per
te, la pittura, in questo confine.
LA: risposta che si può dare é che anche la cultura
é natura, nel senso che anche la cultura, essendo qualcosa
di prodotto dall'uomo, il quale a sua volta é un prodotto
della natura, viene dalla natura. Quindi la pittura, in quanto
cultura, anch'essa é natura. Potrei rispondere così,
ma non sarebbe vero. Perché la cultura é sì
in qualche modo un prodotto della natura, ma é la sua
estrema rarefazione, é la natura che pensa se stessa.
Ma la cultura della quale io parlo e nella quale siamo tutti
intrappolati non é una cultura analitica, é una
cultura behaviouristica, del comportamento....
AT: Qualcosa come dei riflessi condizionati, insomma.
LA: Certo. E' una cultura che si é impadronita di noi,
che si é calata attraverso i mezzi di comunicazione di
massa, attraverso la raffinazione, attraverso la parola scritta
e che ci agisce più o meno sottilmente come automi di
sé.
AT: La fuga dalla pittura di cui parlavi poc'anzi sembrerebbe
aver a che fare con questo tipo di cultura.
LA: Non voglio mettermi a fare considerazioni storiche su cos'era
la pittura ai primi dell'Ottocento, cosa é diventata
dopo la scoperta della fotografia e quindi nell'era industriale,
che cosa é diventata poi con le avanguardie dei primi
del novecento e così via. Credo che questo non abbia
poi molta importanza. Può significare invece qualcosa,
per rispondere alla tua domanda, quello che la pittura gioca
dentro di me (non stiamo parlando forse proprio di questo, del
resto ?). C’è un tentativo di arricchire la pittura,
non parlo come quadro singolo, parlo come generale valenza espressiva,
come elasticità espressiva. Ma questo tentativo é
in fondo una dichiarazione d'impotenza. La pittura forse non
é di questi tempi, non é di questo mondo, non
é do adesso. La pittura é un anacronismo. Si potrebbe
dire con pedanteria che essa ha a che vedere con una precisa
fascia borghese in un suo preciso momento storico. E' qualcosa
di anacronistico, di limitato nel tempo. Che poi i risultati
della pittura non lo siano, questo é un altro discorso....
AT: Forse allora fuga dalla pittura é prendere congedo
da un concetto d'arte che, come lo intendiamo modernamente,
é in realtà cosa molto recente. Arte ed artista
sono infatti nozioni sorte a partire dal cinquecento e durate
indisturbate fino alle avanguardie storiche: in tutta intera
la storia dell'arte, dalle grotte di Lascaux in poi, voglio
dire, é in fondo un esilissimo lasso di tempo. C’è
di che rifletterne, mi sembra. Vorrei, a questo punto, approfondire
quella tua affermazione circa la pittura come anacronismo. Chiediamoci
perché. Perché è tecnologicamente sopravanzata
da altre forme di comunicazione, da altre forme di costruzione
dell'immagine ? Oppure perché é storicamente finito
il mondo pittorico tout court ? Nella seconda metà dell'ottocento
ci si poteva riferire agli impressionisti come i "pittori
della vita moderna"; cento anni dopo, questa attualità
della pittura potrebbe sembrare in declino.
LA: Direi semplicemente perché semplicemente non ha più
ragione d'essere, perché non corrisponde più al
tipo di società che si sta profilando. Sto parlando insomma
di una società che non ne ha più bisogno. Occorre
tuttavia fare almeno due considerazioni al riguardo. La prima
é questa: si può accedere tramite l'informazione
televisiva a tutto quanto sta accadendo nel mondo: Bosnia, la
Borsa di Tokio, le elezioni politiche, la malavita a Mosca e
quant'altro. Ma questa congerie di dati rischia di risultare
un pastone, di fronte al quale orientarsi e capire é
impossibile ed i giudizi che si possono dare diventano emotivi,
banali. L'informazione dei mezzi di comunicazione non la chiamerei
neanche informazione, semmai cronaca, burocrazia. Al contrario,
la pittura va oltre il dispaccio od il commento. Si colloca
semmai su quel drammatico fazzoletto di terra di nessuno dove
le cose si cercano. Realizza un tramite fra due anime: quella
delle cose e quella dell'uomo. Intendendo per anima una scorciatoia
linguistica, ovviamente....La seconda considerazione é
che ho il sospetto che nella società attuale vi sia stata
una specie di inaridimento della sensibilità, dovuta
ad una forza eccessiva del valore del denaro. Ha vinto insomma
il meccanismo del denaro. Con questo non voglio dire che il
nemico della pittura sia la sua mercificazione od i suoi rapporti
con
l' economia ed il potere, tutt'altro. Del resto, questo é
un fenomeno che c’è sempre stato, nella storia.
Facciamo un viaggio a ritroso nel tempo: le ville pompeiane,
gli affreschi. Erano gli schiavi che li dipingevano e ciò
implica un preciso rapporto di potere. Il punto é che
bisogna capire che l'arte c’è (o può esserci)
nonostante tutto questo. Qui sta il motivo, del resto, per cui
in tutto l'arco degli anni settanta (ed anche molto prima, se
penso a Duchamp e al Dada) è fiorita l'estetica della
non-arte e della morte dell'arte. Nonostante tutti i luoghi
comuni, insomma, l'arte é figlia dell'economia, é
l'altra faccia del denaro. Che lo si voglia o no, questo é
un fatto storico e per fare qualcosa di buono, in arte, queste
cose bisogna saperle e capirle ogni giorno, ogni giorno. Per
riassumere: se la pittura oggi non significa più, non
ha più un ruolo, non per questo si può dire che
non siano gli artisti e non ci siano i quadri (anche eccezionalmente
belli, invero). Il che vuol dire che é ancora possibile
fare pittura, all'interno di quelle consapevolezze di cui parlavo
prima. In altro modo, é solo pittura su cultura, e cioè
qualcosa che é cultura su cultura. |
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