La società contemporanea, in cui sempre
più il concetto di globalizzazione si avvicina a quello
di indifferenziazione, è ormai abitata da consumatori
universali privi di caratteristiche identitarie che hanno preso
il posto del cittadino inteso, secondo una definizione di Naomi
Klein ("No logo", 2000) "come individuo situato, parlante
una certa lingua, erede di una tradizione culturale, legato
a luoghi, abitudini e consumi specifici".
La realtà dell'odierna società che produce, propone
e distribuisce a getto continuo oggetti di consumo, si relaziona,
a partire dalla Pop Art ad oggi, con un'arte ormai estranea
all'ambito psicologico ed emozionale, una "poetica dell'inespressionismo", termine coniato da Germano Celant ("Inespressionismo. L'arte oltre il contemporaneo", 1988) in cui l'atto creativo dell'artista si limita spesso a riprodurre
immagini di un déjà vu della realtà senza
alcuna apparente partecipazione personale.
Oggi non stupisce più che le opere di artisti disparati
si leghino all'immagine di un prodotto di mercato per promuoverlo
sul piano commerciale, nobilitando l'oggetto consumistico
o degradando il messaggio creativo, a seconda dei punti di
vista, nel nome di un rituale che caratterizza la vita quotidiana
di tutta la civiltà occidentale, percorrendo trasversalmente
popoli e nazioni: il consumo.
Per primo Andy Warhol intuì i possibili sviluppi di
un'arte moderna che si sarebbe sempre più integrata
con la vita comune, secondo un concetto nuovo che trasferisce
l'attenzione del fruitore dal contenuto al contenente, delegando
all'artista, nel nostro "regime della comunicazione",
dove chi più, e più rapidamente, comunica ha
maggiori possibilità di successo, il ruolo di comunicatore
di un'arte essa stessa prodotto di consumo.
Infranto il tabù di un'arte in qualche modo "altra"
dalla vita, e dell'oggetto artistico come una realtà
a sè stante soggetta alla legge dell'estetica, dapprima
ad opera del Dadaismo di Duchamp e del suo ready-made e poi
della corrente new-dada che diventerà Pop Art, oggi
non si fa fatica ad accettare il concetto che l'artista attinga
per la sua ispirazione alla stessa cultura di massa in cui
è immerso il consumatore, muovendosi al limite di due
mondi, quello dell'arte e quello del commercio, che oggi trattano
la stessa materia, il bene di consumo, sia esso un prodotto
pronto all'uso o un feticcio vuoto di significato trasformato
in arte dalla firma dell'artista.
Non è facile stabilire quanto il contenuto artistico
si conservi tale all'interno di operazioni squisitamente commerciali
dove l'idea, il gesto, l'inventiva e la creatività
dell'artista sono solo alibi per giustificare qualunque proposta,
per indurre a comprare quel che c'è da comprare, fuori
da ogni necessità logica, in un'indifferenziata "oniomania"
che rasenta lo shopping compulsivo di un esercito di "soggetti
desideranti".
Ciò che si può dire con certezza è che
l'arte è uscita definitivamente dalla sua torre d'avorio
per rappresentare tutto quello che, per dirla con Andy Warhol,
"chiunque scendesse per Broadway era in grado di riconoscere
all'istante", rinunciando a stratificazioni di significati
e concettualizzazioni, muovendosi unicamente nelle coordinate
delle immagini prodotte dalla cultura di massa, di ciò
che l'odierna società del benessere può comprare
per ricavare la certezza del proprio esistere.
Siegfried J. Schmidt definisce
il rapporto arte-pubblicità come il flirt tra due sistemi
diversi che fanno parte di un sistema sociale generale in
cui l'arte si serve degli elementi messi a disposizione dalla
pubblicità mentre i modelli pubblicitari, di grande
efficacia comunicativa, vengono utilizzati per veicolare contenuti
e messaggi artistici.
René Magritte realizza nel 1924 un poster per l'Alfa
Romeo, Man Ray nel '32 una pubblicità per la metropolitana
di Londra, nel '46 Victor Vasarely crea la pubblicità
dell'Air France, Eduardo Paolozzi pubblicizza nel '48 il Drink
Dr. Pepper, nel '50 per la Fiat lavora Giorgio De Chirico,
nel '60 Bruno Munari reclamizza il Campari, nell' '80 Andy
Warhol realizza la pubblicità Perrier, nell' 83 Keith
Haring reclamizza il Montreux Jazz Festival, oggi Damien Hirst , noto esponente dei "young British Artists", un
forte spirito indipendente e dissacratorio, una grande capacità
di autopromozione, dice:" Io credo che diventare
un marchio di fabbrica sia un momento importante della vita.
È il mondo nel quale viviamo. Devi averci a che fare,
capirlo e cavalcarlo. Fino a quando non diventi la proiezione
di te stesso, non sarai in grado di fare altri Damien Hirst.
Nel nome di questa nuova "strategia commerciale del
visivo" separare i due ambiti è sempre più
difficile e forse sempre meno necessario.
link:
Origini dell'arte comunicazionale
Arte e business
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