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Architettura, forse
di Vilma Torselli
pubblicato il 10/06/2007 |
L'architettura da tempo libero, nell'epoca
della globalizzazione del nulla. |
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Emerge da alcuni anni una nuova tendenza nella definizione
della funzione architettonica, dell'uso per il quale l'architettura
stessa viene progettata e realizzata, legata ai macroscopici
cambiamenti sociali e comportamentali dell'umanità
contemporanea: è nata l'architettura da tempo libero.
Architettura pubblica da intrattenimento, non-luogo nel quale
si concentrano megaraduni di persone che hanno tempo da passare
o da perdere, è l'architettura della spettacolarizzazione,
della polifunzionalità, della flessibilità,
della globalizzazione (ma anche dell'incerta destinazione
e del qualunquismo), per la quale Kurt Forster in occasione
di una famosa biennale di Venezia, individua un "nuovo
ruolo, catalizzare grandi esperienze sociali e culturali a
scala internazionale".
Ciò che pare evidente è che l'architettura
recente ha perso il suo ruolo di 'servizio' nei confronti
dell'uomo per divenire architettura dell'autoreferenzialità,
che, sempre più spesso configurandosi come un azzardo
progettuale ed una scommessa urbanistica, solo a posteriori,
e talvolta in direzioni casuali, rivelerà la sua validità
o inutilità.
Nel nome di una polivalenza progettuale che giustifica talvolta
il puro divertissement creativo, sorgono mastodontici musei,
centri sociali, teatri, sale espositive, stadi, centri commerciali
e tutta una tipologia di architettura d'evasione non motivata
dalla necessità di soddisfare bisogni reali, ma dalla
volontà di crearne di nuovi per poterli soddisfare,
avendo in sé stessa le ragioni della sua esistenza
e delle modalità progettuali che la informano.
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Non più strumento per abitare
la terra, ma autotelica celebrazione di una forma, questa architettura
è contemporaneamente mezzo e fine, significato e significante,
domanda e risposta, problema e soluzione, implosa in una autosufficiente
affermazione di sé, un'architettura che, come l'arte
contemporanea, "taglia i ponti con la referenzialità
[
.] per concentrarsi tutta sulla propria natura
di linguaggio e quindi su di sé, sui propri strumenti
espressivi." (Alessandro Tempi): è nata l'architettura
superflua.
La cultura di massa, il turismo low cost, il lavoro temporaneo
e flessibile, i consumi immotivati alla portata di tutte le
tasche, la precarietà di una situazione socio-economica
in continuo divenire indirizzano oggi la domanda verso un'architettura
provvisoria cristallizzata in un eterno presente, nella quale
la capacità immaginifica dei progettisti spazia disordinatamente
alla ricerca di esiti destinati a stupire e catturare con effetti
speciali un'utenza indifferenziata, anonimamente orientata,
purché numerosa: è l'architettura della quantità,
l'architettura dei vuoti sovradimensionati, a basso contenuto
ideologico e culturale e ad alto tasso scenografico, rivolta
al viaggiatore, al visitatore, al passante, al turista, allo
straniero, al consumatore generico ed onnivoro, un'architettura
di tutti e di nessuno che ignora l'abitante stanziale e le sue
specifiche singolarità per privilegiare l'anonimato del
collettivo.
Parafrasando George Ritzer, si potrebbe dire che l'architettura
da tempo libero ponga un'enfasi sugli aspetti quantitativi del
prodotto, in un sistema "mcdonaldizzato" in cui la
quantità è divenuta equivalente di qualità
e la sovradimensione un marchio di garanzia.
E' così che lo spazio pubblico cessa di essere luogo
dell'incontro e del confronto nel quale attuare la comunicazione
di una propria identità e di una propria struttura relazionale
per divenire oggetto di un'appropriazione ludica pronta a spostarsi
verso il miglior offerente. Perché l'architettura da
tempo libero è omologabile, indifferenziata, anonima,
priva di significati distintivi e specificità culturali
che non siano quelle strettamente soggettive del progettista,
intercambiabile, grobalizzata (growth + globalization,
per usare un neologismo di derivazione anglosassone).
E' innegabile che da sempre l'architettura sia il mezzo a
cui l'umanità ricorre per connotare i luoghi con i
simboli della memoria, imprimendo nella materia, nelle superfici
e nei volumi dell'architettura ricordi e testimonianze di
culture specifiche, di peculiari visioni del mondo, di filosofie,
di religioni, non a caso il primo esempio di architettura
della memoria è il tempio.
L'architettura, insomma, ha costruito nel tempo un insieme
di irrinunciabili coordinate spazio-temporali secondo le quali
si orienta, si forma e si legge una civiltà: e la storia,
i costumi, i valori di una civiltà stratificano nella
sua architettura, letteralmente, perché noi oggi camminiamo
e costruiamo su una reale, fitta stratificazione di antichi
selciati, colonnati, templi e palazzi, su una straordinaria
storia dell'architettura ordinatamente preservata dal tempo
in un archivio della memoria senza il quale la conoscenza
del nostro passato sarebbe drasticamente ridimensionata.
Ovviamente, ogni architettura esprime il suo tempo cosicché
una società globalizzata che vuol essere generalista, aperta alle contaminazioni e all'interdisciplinarità,
correndo facilmente il rischio di essere solo generica, produce
l'architettura che si merita, che sarà anch'essa generica.
Oggi probabilmente ci meritiamo i luoghi del nulla, dei riti
della massificazione, templi della McDonaldization, incunaboli
di una nuova stirpe antropologica de-ideologizzata, più
sensibile all'apparenza che alla sostanza, all'eccentrico
piuttosto che al quotidiano, abitante di un tempo inutile
e marginale che si dipana tra effetti ambientali artificiali
e stili trans-nazionali elaborati con l'intento probabile
di parlare a tutti, con il risultato altrettanto probabile
di non parlare a nessuno.
Ed infatti il Guggenheim di Frank O. Gehry potrebbe tranquillamente
collocarsi a Berlino o a Madrid anziché a Bilbao, la
fiera progettata da Massimiliano Fuksas per Milano potrebbe
collocarsi in qualunque metropoli occidentale, il progetto
di Daniel Liebeskind per Ground Zero si adatterebbe senza
fatica, fatti salvi alcuni retorici riferimenti contingenti,
a Milano o a Parigi o a Kuala Lumpur, così come altre
creazioni di progettisti contemporanei frutto di linguaggi
personali in libertà potrebbero stare ovunque, non
avendo nessun rapporto profondo con i luoghi e con le culture
locali, conformati alla superficiale ecumenicità della
cultura contemporanea.
E' pur vero che la sopravvivenza nell'epoca del global vuol
anche dire adattarsi al nulla piuttosto che soccombere
attaccandosi a qualcosa, ma esiste un limite oltre
il quale la capacità di assimilare l'altro si scontra
con l'ancestrale diritto alla difesa della propria identità.
Lungo questo delicato border-line l'architettura può
essere, ha il dovere morale di essere, l'ultimo baluardo contro
la "Globalizzazione del nulla" e preparare per le
generazioni future un passato prossimo venturo che parli ad
ognuno della sua storia, delle sue radici, della sua origine,
perché sappia da dove viene, per sapere dove sta andando.
* articolo aggiornato il 2/08/2014
link:
Globalizzazione
del nulla e architettura senza tempo, un articolo di Pietro
Pagliardini
Architettura e fantasmi
L'architettura, una promessa di eternità
La fine dei luoghi
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