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L'ombelico del mondo
di Vilma Torselli
pubblicato il 10/02/2008

"L'architettura abbraccia l'intero ambiente della vita, e rappresenta l'insieme delle trasformazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane" (William Morris)

Palla al piede della cultura moderna occidentale, l'antropocentrismo dogmatico dell'homo faber che induce strategie comportamentali giustificabili esclusivamente dal punto di vista dell'uomo, dalle origini fino ad ieri ha prodotto in occidente un'architettura saldamente antropocentrica, dove antropocentrismo, concezione filosofica che considera l'uomo come centro e fine ultimo dell'universo (de Mauro, “Dizionario della lingua italiana”), vuol dire umanesimo in senso lato, e dove architettura vuol dire una forma che nasce dalle ragioni interne di un uomo libero, l'uomo vitruviano di Leonardo, che ha scoperto l'origine di tutto in sé stesso, in sostituzione ad una forma definita dall'esterno sullo schema di un concetto tolemaico dell'universo.

Non più organizzata secondo una visione teocratica piramidale, l'architettura umanistica cerca le sue ragioni nella mente, nello spirito, nell'anima dell'uomo: è ciò che accade dal lontano ‘400 italiano ed è un'esperienza che ha contaminato tutta la cultura a seguire.

Attività necessaria ed inderogabile, l'architettura nasce come un mezzo per abitare il mondo, non un fine da perseguire, o, se vogliamo, come uno strumento da usare per perseguire un fine che non è quello di fare architettura, ma quello di colonizzare la terra anche attraverso l'architettura.
L'architettura è peculiarità eminentemente umana in quanto evolve nel tempo, a differenza dei sistemi costruttivi degli altri esseri viventi che restano sostanzialmente invariati: svolta dall'uomo per l'uomo, è quindi in un certo senso una realtà doppiamente autoreferenziale che non ha via d'uscita da sé.

Il che non è né un bene né un male, è uno dei modi della condizione dell'essere uomini, e se l'intervento umano e la consapevolezza dell'artefice condizionano il prodotto architettonico così come ogni altro prodotto artistico o estetico o altro, ebbene sì, l'antropocentrismo esiste ed è inevitabilmente radicato nel fare umano.

La critica all' antropocentrismo, uno dei più accaniti dibattiti della contemporaneità, si propone di districare la cultura contemporanea, quindi anche l'architettura, dal paradigma classico antropocentrico per orientarla verso i nuovi orizzonti di una concezione più allargata che nell'arte visiva è in atto dai primi anni del passato ‘900.
In epoca recente, l'anti-antropocentrismo, specie in architettura si è identificato nella lotta al dispotismo dell'uomo sulla natura con un'inedita attenzione all'ambiente ed atteggiamento rispettoso dell'ecosistema: ne è scaturita una nuova consapevolezza della necessità di una cosciente cooperazione e compartecipazione biologica per una progettazione che non si impone sulla natura, ma cerca di sfruttarne appieno le potenzialità accettandone anche le restrizioni, assimilando nella progettazione nuovi materiali, ottimizzando i consumi ed amministrando responsabilmente le risorse. Si è così definito il moderno concetto di ‘architettura sostenibile'.
Si deve a Arne Naess, padre carismatico della deep ecology, la teorizzazione dei valori filosofici del ruolo che l'uomo può giocare all'interno dell'ecosfera: geo-architettura, bio-architettura, architettura bioecologica, land-architecture sono le variegate definizioni di correnti che recepiscono la necessità di integrazione pacifica tra ecosfera e tecnosfera per “Fare pace con il pianeta” secondo l'incitamento di Barry Commoner.
E l'uomo di oggi, così come deve accettare il fatto di vivere all'interno di una rete di relazioni interdipendenti e di non essere più l'ombelico del mondo, il centro privilegiato dell'universo conosciuto, così deve accettare che non ci sono specie o razze più meritevoli di altre, essendo in atto un confronto alla pari continuo ed ineludibile tra culture diverse che spazza via il concetto di cultura identitaria: concetto che viene messo in discussione per la prima volta dall'antropologia culturale, disciplina relativamente giovane (il primo studioso che parla di antropologia culturale è Edward Burnett Tylor docente ad Aberdeen nel 1888 e a Oxford nel 1895) che affronta in modo olistico lo studio delle società umane.

Chiamiamola, se si vuole, globalizzazione.

E fino a qui non è difficile capire, anche intuitivamente, le ragioni e le basi concettuali dell'anti-antropocentrismo, sia in generale che applicato all'architettura come prodotto dell'uomo entro una realtà che lo sovrasta, con la quale deve fare i conti.
Più difficile capire quando si imbocca il cammino tracciato da moderne correnti quali architettura decostruttivista, architettura concettuale, anti-architettura, dis-architettura ecc., per le quali anti-antropocentrismo significa abbandono dei nessi relazionali e disinteresse per ogni logica assemblativa, scissione dei rapporti sintattici tra i vari elementi dell'architettura con conseguente destabilizzazione percettiva dell'osservatore-fruitore e ribaltamento delle correnti regole di utilizzo dell'architettura stessa, con atteggiamento spesso prettamente intellettualistico e marcatamente teorico.

Pur essendo auspicabile ogni speculazione filosofica che apra nuovi orizzonti di conoscenza, ogni sana sperimentazione che nulla lasci di intentato sul cammino del progresso, che è sempre stato tracciato da chi osa e cerca nuove vie, tuttavia non va perso di vista il fatto che l'architettura è nata per essere abitata, intendendo il termine nella sua originaria radice etimologica posta nel verbo ‘habere', nata per essere ‘posseduta' dall'uomo che la progetta e la realizza per sé e per i propri scopi, con attività quindi inevitabilmente ed indiscutibilmente autoreferenziale ed antropocentrica.
Né potrebbe essere diversamente, alla luce di pochi concetti elementari ed incontrovertibili:

  • -L'uomo articola il mondo attraverso il corpo, poiché questo possiede un alto e basso, una destra e una sinistra,un davanti e un dietro, anche il mondo che da esso prende forma è uno spazio eterogeneo” (Riccardo Dottori, "Quid est rerum metaphysica?")
  • - L'architettura, secondo la lettura che ne dà, fra gli altri, Bruno Zevi, è prima di tutto spazio, il quale è entità non teorica o astratta, ma un insieme reale di luoghi diversamente significanti sia in sé (l'antico genius loci), sia in quanto teatro di avvenimenti umani.
  • - Architettura non è semplicemente l'azione di edificare, ma anche di pensare, inventare, tramandare, socializzare, storicizzare.
  • - Abitare l'architettura significa collocare il ‘corpo' entro lo ‘spazio' della sua esistenza fisica, psichica, filosofica, sociale, culturale.

Lo ‘spazio' in quanto ‘luogo' della vita dell'uomo ha peculiari caratteristiche ed è orientato e correlato con le capacità sensoriali, intellettive e cognitive del soggetto senziente, del quale costituisce il contesto ambientale. Il modo in cui l'uomo si relaziona con il ‘luogo' attraverso gli stimoli percettivi che lo coinvolgono non è opzionale, ma definito e specifico della struttura fisica e mentale che millenni di evoluzione hanno costruito per lui.
L'architettura che, fatta dall'uomo, come l'uomo vive e si relaziona con lo spazio, non è frutto di scelte casuali, ma anch'essa correlata sia alle caratteristiche psico-fisiche dell'artefice-fruitore, sia al layout ambientale entro cui egli la colloca, verticalismo, orizzontalismo, perpendicolarismo, simmetria ecc. non sono concetti inventati dall'uomo, ma chiavi di lettura del mondo desunte dall'osservazione e dal confronto con i luoghi, la natura, la storia.
Se in tutto ciò c'è molto antropocentrismo, è perché l'uomo ha lavorato intenzionalmente per sé e per i suoi simili, ai quali ha lasciato una preziosa eredità da cui partire. Perciò non dovrebbe stupire più di tanto che per millenni l'uomo-architetto abbia preteso “di subordinare la forma alla centralità di quel comune preconcetto definibile vissuto spaziale nel cui centro, per definizione, risiede l'Uomo” (Andrea Felicioni, "Peter Eisenman")

L'uomo di oggi trova riscontro ai suoi malesseri esistenziali e psicologici in un'architettura di crisi, complessa e irregolare, antinaturalista, amorfa, autorappresentativa, artificioso esperimento da laboratorio, quella di Gehry, Libeskind, Eisenman, Koolhaas, un'architettura artisticizzata che sembra ad ogni costo volersi sottrarre ad ogni processo costruttivo della logica conosciuta, un'architettura nella quale, già una decina di anni fa, Alberto Cuomo leggeva “le tensioni piuttosto di una creatività dello spazio sempre più difficile nel nostro liquido universo che sembra progressivamente appiattirsi verso un mondo di pure immagini prive di profondità, prive d'abitare ”.

Tuttavia l'architettura è stata e continua ad essere definita in funzione delle specificità culturali, sociali, politiche, economiche del periodo storico al quale appartiene, sviluppandosi secondo percorsi di ricerca inesplorati, ambigui, talvolta tortuosi, spesso frutto del genio speculativo di pochi che sanno vedere oltre e magari cogliere ciò che i tempi non sono ancora maturi per accettare, pensatori, artisti, architetti, ma comunque Uomini che producono, specularmente a sé stessi, un'architettura che origina, come l'arte, dalla loro capacità creativa e dalla loro visione del mondo, soggettiva, personale e perché no?, necessariamente antropocentrica.

Per chiudere in chiave aneddotica, prendo spunto da una causa intentata dal MIT di Boston vs Frank O. Gehry, come riferisce il 31 ottobre 2007 The Boston Globe, con una richiesta di risarcimento record attorno ai 300 milioni di dollari relativa alla costruzione del Ray & Maria Stata Center, complesso portato a termine da Gehry nel 2004, all'interno del Massachusetts Institute of Technology.
Senza entrare nel merito del contendere, cito una frase pronunciata dall'ex rettore della Boston University, John Silber , a corollario delle motivazioni che hanno generato l'azione legale, sempre secondo quanto riferito dal Boston Globe, che mi pare riassuma significativamente il nocciolo del discorso: "...il problema è che non si può abitare una scultura, mentre gli utenti in quell'edificio devono viverci".

Un edificio a misura d'uomo: ecco che torna il caro, vecchio modulor, il ben noto connubio forma-funzione, binomio probabilmente sconosciuto al genio del decostruttiviamo, che evidentemente condivide l'affermazione del collega-amico Claes Oldenburg, secondo il quale "un edificio si distingue da una statua solo perché all'interno ci sono i gabinetti."

Ricordando l'osservazione di John Silber mi sorge un dubbio: che il progettista si sia dimenticato di metterceli?

Questo sì che è anti-antropocentrismo .......

link:
Architettura da amare
Ethical Architecture
Mister Gehry, ci sei o ci fai?


DE ARCHITECTURA
di Pietro Pagliardini


blog di Efrem Raimondi


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