“Siamo noi –
dice Lucien Fèvre - che, nel bisogno di “organizzazione
del passato”, diamo un ordine, che continuamente viene
rivisto, ad una catena di fatti apparentemente senza significato”:
ed in tal caso, la concatenazione “storica” degli
eventi dipenderebbe dall’arbitrario lavoro dello “storico”,
un ansioso insicuro alla ricerca di una consolatoria giustificazione
che gli permetta di dare un senso al passato, nella recondita
speranza di trarne rassicuranti suggerimenti comportamentali
per il futuro.
Lo storico, per definizione, è quindi portato al pensiero
progettuale, mentre la visione globalistica passa attraverso
la destrutturazione, filosoficamente intesa, che è l’antitesi
della progettualità. Essere in grado di leggere un testo
(o un evento o un’architettura o un piano urbanistico)
senza interporre un'interpretazione soggettiva rappresenta non
solo “la forma ultima di esperienza interiore",
stando a Nietzsche, ma anche la certezza di non dare ad un racconto
un senso che non ha e di non leggere un consequenziale rincorrersi
di cause ed effetti che possono non esserci.
E’ un atteggiamento difficile, per l’occidente,
sospinto incessantemente da un bisogno di ricostruzione storica
del passato secondo un concetto evoluzionistico che gli appartiene,
ma è ciò che dovremo fare se vogliamo che i nostri
discorsi sulla globalizzazione e sulla storia globale abbiano
un senso.
Dobbiamo porci il dubbio, insomma, che evoluzione e cambiamento
siano due concetti generati dalla metafisica occidentale basata
sull'opposizione dualistica del “è o non è”
(essere/divenire, vero/falso, bene/male, in questo caso immobilismo/mutamento
ecc.), che inducono a leggere gli avvenimenti come racconto
del passato nel quale cercare processi e cause, con la pretesa
di attuarne un tentativo di comprensione e spiegazione logiche
e consequenziali.
La storia, insomma, potrebbe essere costituita semplicemente
da un insieme cronologico di eventi susseguentisi nel tempo
e tutto ciò contribuirebbe ad aprire impensate possibilità
di integrazione tra tutte le possibili ‘storie’
che nell’odierna società globalizzata si intersecano
e si mischiano, mettendo d’accordo sotto l’ala generalista
dell’antropologia culturale civiltà diverse e fino
ad oggi contrapposte, se non conflittuali.
Fra tutte le discipline esercitate dall’uomo, l’architettura
è forse quella nella quale meglio si può leggere
una possibile esistenza senza ‘storia’, perché
l’architettura, sasso, pietra, cemento, legno, concreta
e pesante, semplicemente ‘è’.
Inamovibile e duratura, l’architettura è testimone
delle singolarità e delle peculiarità del genere
umano, è così che ancora oggi, ad esempio, a distanza
di millenni, la diversità di stile tra un tempio dorico
ed uno ionico ci racconta la differente visione del mondo di
due etnie, l’una pragmatica e l’altra sottilmente
intellettuale, mentre una tipologia tipica di circoscritte zone
geografiche, come per esempio il “broletto” nelle
città del norditalia, testimonia con la sua sola presenza
un’esperienza sociale e politica unica e specifica .
Senza che le si chieda niente, l'architettura ci parla, a volte
urla, a volte sussurra, brulica di messaggi e di indizi, ci
fornisce una miriade di informazioni su vari livelli di interpretazione,
che vanno da indicazioni puramente funzionali (una porta indica
la presenza un ingresso, una scala quella di un piano superiore
ecc.) a messaggi squisitamente intellettuali, concettuali e
simbolici, basti pensare al significato della curva barocca
o della prospettiva rettilinea rinascimentale.
E’ un linguaggio che ha anche precise sintassi, gli ordini
e gli stili, ma che spesso si prende clamorose licenze poetiche
e inventa, improvvisa, reinterpreta e rinnova.
Le città italiane sono esempi perfetti di spazio astorico,
dove convivono a continuo confronto antichità e contemporaneità
in un comune contesto dove ogni architettura è un fatto
creativo a sé, dotata di un suo spazio-tempo che ne costituisce
parte integrante.
Concetto che si è rinsaldato dopo l’avventura avanguardista,
quando l’idea di un’arte ed un’architettura
che discendano consequenzialmente dal loro passato è
stata sostituita dalla concezione del presente come un divenire
dinamico, senza riferimenti nel pregresso e senza orientamenti
per il futuro se non verso un cambiamento, senza pretese di
continuità e di correlazione.
Questa idea astorica e atemporale dell’architettura è
stata integralmente recepita ed enfatizzata dall’architettura
moderna, per la quale il divenire storico ha perso ogni significatività
a beneficio di una ricorrente autoreferenzialità che
la porta a collocare in sé il senso, il modo e il tempo
della propria esistenza, a stabilire da sola le regole, a conservare,
contraddire, scegliere, scartare, intepretare.
Oggi le cattedrali del terzo millennio non sorgono nel deserto,
ma nelle aree metropolitane delle moderne città, in America
come in Europa come in Asia, appannaggio di pochi arcinoti architetti, sinteticamente definiti con il neologismo di 'archistar', che paiono del tutto indifferenti alla necessità di diversificare
i loro progetti in base alla specificità dei luoghi e
che spesso compiono clamorosi plagi di sé stessi passando
da un museo alla cantina di un’azienda vinicola senza
cambiare sostanzialmente una virgola.
Dietro il compiacente paravento di un internazionalismo stilistico
che nasconde disinteresse e qualunquismo culturale, nasce così
l’architettura-jolly, che va bene dappertutto, scaturente
dalla creatività libera di progettisti senza frontiere.
Come nell’arte contemporanea, da Warhol in poi, la firma
legittima l’opera della quale costituisce l’attributo
più importante e significativo, accade così che
pochi si chiedano che c’entra il Guggenheim Di Bilbao
con Bilbao e molti invece si chiedano chi ha progettato il Guggenheim
di Bilbao, che pochi si chiedano che c’entra il Nunotani
Building con Tokyo, molti chi sia Peter Eisenman.
Cacciata dalla porta, la storia rientra dalla finestra: finita
la storia dell’architettura, pare iniziata la storia degli
architetti.
Che, però, è tutta un’altra storia……
Su questo nuovo corso scrive, con la tagliente ed intelligente
ironia che lo caratterizza, Ugo Rosa su Arch’it, “Gli
architetti e la storia”:
“L'architetto infatti è, a mio avviso, geneticamente
allergico alla luce, abbisogna del buio come il vampiro, e di
pendere periodicamente a testa in giù in abbandono [
……….] La ragione per cui Adolf Loos si fece
sordo fu questa: non poteva più tollerare la petulante
e ciarliera coscienza di sé degli architetti, l'ego storico
(prima ancora che storicista), la rogna contro cui l'architetto
moderno deve da sempre combattere: questa vigile, azzimata,
coscienza di sé che produce cose marce dalle fondamenta,
questo classificarsi come "autore" già prima
di nascere, questo mettere il timbro d'autenticità agli
scarabocchi per poi mostrarli senza ritegno ad ogni allocco
che sembri disponibile a bersela [……]. E più
la storia si occupa di lui, dell'autore, più l'architettura
diventa trasparente e scompare: abbiamo così una caterva
di geni dell'architettura e non abbiamo più l'architettura,
che s'è rintanata nelle forre […….]
Sento dire che nelle Americhe c'è qualche spiritoso che
vuole far sparire la storia dalle facoltà di architettura,
ma nessuno di questi cervelli è sfiorato dall'idea che
ci sarebbe, in primis, da far sparire l'architetto dalla storia
[…..]”.
Sante parole!
Ridateci l’architettura, con la sua storia, le sue radici,
il suo passato bello o brutto che sia, per poterla guardare,
abitare, vivere, amare, per scovarci dentro l'eredità
dei nostri padri da tramandare ai nostri figli e per poterci chiedere, con un brivido di sgomento:
che mondo sarebbe senza architettura?
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As time goes by
Tutta un'altra storia
Architettura nello spazio-tempo
La tradizione
* articolo aggiornato il 2/08/2014 |