Più che mai significativo
di questa rinnovata aspirazione all’osmosi è
il fenomeno della Public Art, nato negli anni ’60 e
promosso dalle pubbliche amministrazioni specie anglosassoni
(based community projects) con intenti di riqualificazione
del territorio, di riassetto urbanistico di aree degradate,
di urban design, ripreso con più ampio significato
negli anni ’90 e centrato sul concetto di site specific,
contesto entro il quale l'opera d’arte viene collocata
in stretto rapporto con la specificità del luogo, secondo
la più rigorosa pertinenza dell'una rispetto all'altro.
Alla base della Public Art sta il concetto di arte come forma
comunicativa (si parla anche di social art o community
art), specchio della molteplicità delle relazioni
collettive, strumento di incentivazione e mediazione della
genesi di aggregazione comunitaria, in grado di svolgere un
ruolo attivo nelle dinamiche culturali e sociali del luogo
in cui si colloca, arte che di quel luogo deve preservare
la specificità, la storia, la memoria, il significato
conferitogli dalla gente che lo frequenta, i contenuti simbolici
o psicologici: sotto questo punto di vista, la Public Art
si identifica come efficace mezzo per una riqualificazione
non solo del territorio ma anche della vita relazionale della
collettività che lo abita.
E’ evidente come le finalità di questa moderna
espressione d’arte visiva siano sovrapponibili a quelle
dell’architettura moderna, come non mai attenta alle
relazioni con il contesto ambientale e sociale, che proprio
grazie al confronto con la Public Art ha messo in atto negli
ultimi tempi graduali e significative modificazioni nell’approccio
alla progettazione, sempre più spesso transdisciplinare
ed ibrida, sempre meno stabile e definita sia nelle forma
che nelle funzioni: Koolhaas, Gehry, Hadid, Herzog & de
Meuron, Eisenman e tanti altri sono l’esempio di come
l’architettura abbia abbandonato ogni rivendicazione
di specificità culturale e disciplinare per aspirare,
come l’arte visiva, ad una libertà espressiva
che le permetta di evadere dai dogmi del funzionalismo e produrre
forme (non importa se statue o architetture) nello spazio
dell’uomo.
Grazie a questa mediazione, l’architettura diviene così
la cartina al tornasole, in tempo reale, di una società
culturalmente e socialmente diversificata dove il divenire
spinge inesorabilmente ogni forma espressiva verso il provvisorio,
in un continuo superamento di sé, e dove per la prima
volta si configura l’idea che per architettura si intenda
non solo il costruito e l’abitato, ma anche il temporaneo,
il precario, l’instabile, l’effimero.
Nella consapevolezza che oggi più che mai il cambiamento è l’essenza delle umane cose e condizione necessaria
per l’evoluzione e il progresso, l’architettura
si adegua, lasciandosi contaminare dalla frammentazione del
sapere e dalla generalizzazione dei caratteri che distinguono
la cultura moderna. Il che destabilizza l’opinione radicata
che l’architettura sia fatta per durare ed affrontare
i secoli, cosa che di fatto fino ad oggi è accaduta,
introducendo l’innovativo concetto che anch’essa
debba avere invece un ciclo vitale, decada e si consumi.
“….ogni cosa dura il tempo che dura. Perché
auspicare che un'architettura si conservi per l'eternità?”,
così si interroga Massimiliano Fuksas ("Più
emozioni in periferia", intervista di Leonardo Servadio,
'L'Avvenire on line', 02.02.05), ragionando di grandi opere
e non luoghi, e probabilmente è quello che ci dobbiamo
augurare guardando tanti prodotti contemporanei, compresi
alcuni suoi.
Ciò perché parlare del presente, evadendo ogni
ipotesi sul futuro, è un modo per tacitare le coscienze
ed esorcizzare le paure dell’uomo moderno, preoccupato
e spaventato da ciò che verrà.
Scrive sul tema Marc Augé: “L’architettura
contemporanea non mira all’eternità ma al presente:
un presente, tuttavia, insuperabile. Essa non anela all’eternità
di un sogno di pietra, ma a un presente “sostituibile”
all’infinito….. “
Per la verità l’idea non è poi così
nuova, ci aveva già provato il Futurismo, con Antonio
Sant’Elia che declama: “Le case dureranno
meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la
sua città “, sarà per questo che
il Futurismo non ha prodotto una vera e propria architettura
futurista, sarà perché l’architettura
resiste all’usura del tempo e non è così
semplice ricominciare da zero edificando su una tabula rasa.
L'architettura di oggi, poi, può accadere che resista
più di un colonnato romano, poiché la tecnologia
moderna, la vasta gamma di nuovi materiali e le nuove tecniche
costruttive altamente specialistiche ed estremamente affidabili,
sono (loro sì!) fatte per durare nei secoli.
Quindi mentre la funzione dell’architettura appare strettamente
legata ad esigenze contingenti in veloce mutamento, rapidamente
destinate all’obsolescenza per generare vuoti simulacri,
cenotafi di culture annacquate dall’omologazione e dal
qualunquismo, la sua sostanza materiale, invece, sembra votata
all’eternità, grazie all’impiego di prodotti
di longevità potenziale senza precedenti.
Viene in mente Borges, che ammonisce: "Nulla si edifica
sulla roccia, tutto sulla sabbia, ma è nostro dovere
edificare sulla sabbia come se fosse roccia", è
questo l’ineluttabile destino dell’uomo, specie
se fa l’architetto, ed è inevitabile che ogni
esperienza lasci, anche senza averne l’intenzione, un’eredità
duratura.
"L'effimero è eterno", dice Daniel
Spoerri fornendo la chiave di lettura dei suoi tableaux-pièges,
e se sono consegnate all'eternità le sue tavole imbandite
degli avanzi marciti di un’interminabile ultima cena,
figuriamoci l’architettura, di indeperibile pietra,
legno, cemento, acciaio, titanio ecc. .
E’ innegabile l’impossibilità dell’arte
e dell’architettura moderne, espressione di una società
instabile, non deterministica, fluidamente dinamica, di definirsi
in termini oggettivi e codificabili, tuttavia il loro carattere
di work in progress non ne decreta necessariamente
la caducità, anzi ci sono ottime probabilità
che proprio loro restino per una ragionevole ‘eternità’
come la più significativa testimonianza del nostro
tempo.
Perché, al di là delle prese di posizione di
progettisti innovatori che cercano in una dichiarata provvisorietà
il lasciapassare per una produzione generica e 'fantasiosa'
dove la libertà espressiva confina con il disprezzo
o l’ignoranza di una precedente cultura millenaria,
l’architettura resterà, quella di Palladio e
di Borromini, che ha già sfidato i secoli, come quella
di Fuksas e di Piano, recente proliferazione di un instabile
presente: è infatti fortemente improbabile che, se
fra pochi decenni sarà, come è possibile, largamente
superata la produzione di queste ultime due archistar, i nostri nipoti ci
mettano una bomba e la facciano sparire dalla faccia della
terra.
O no?
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Temporary Architecture
Architettura, nuvole e cavalli
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