E’ un dato di fatto che
molto è cambiato negli ultimi decenni, non ci sono
più i caffè letterari di una volta, i salotti
buoni nei quali gli architetti si radunavano per parlare tra
loro e con scrittori pittori, artisti, oggi c’è
il villaggio globale in cui ognuno entra e esce senza chiedere
il permesso, dice ciò che vuole, posta un’opinione
che nessuno leggerà, o che leggerà qualche sconosciuto
all’altro capo del mondo, di un’altra lingua e
di un’altra civiltà, cosicché oggi un
architetto di Canicattì può, senza muoversi
dal suo studio, partecipare ad un concorso per un museo in
Nuova Zelanda, e vincerlo pure!
Perché l’architetto vincente (e modernista)
non è un lottatore, ma un mediatore, che sa superare
un suo personale background culturale, una personale concezione
del mondo in cui la realtà si piega alla forza delle
sue idee per captare e catturare senza preconcetti i segnali
del reale, rinunciando, mediando, compromettendo, elaborando,
ibridando, progettando un mondo certamente non perfetto, ma
tuttavia il migliore dei mondi possibili.
Gli architetti modernisti, preferibilmente con ascendenti
ebraici, hanno in genere alle spalle una cultura multidisciplinare
ed un passato variegato: prima di fare l’architetto
Frank O. Gerhy era scultore e, secondo una leggenda metropolitana,
pare camionista, Daniel Libensky studiava musica al conservatorio
di Tel Aviv, Peter Eisenmann conduceva studi filosofico-matematici,
tanto per fare dei nomi, personaggi di respiro internazionale,
cittadini del mondo e non c’è quindi da stupirsi
se i loro progetti hanno il tipico taglio buono-per-tutte-le-stagioni,
loro stessi non sanno se vinceranno un concorso a Milano piuttosto
che in Dubai o a New York e l’intercambiabilità
del progetto li mette in grado di arrivare in tempo dovunque.
Gli architetti modernisti sono generati o ispirati dalla cultura
anglosassone, specie americana, dove è lecito infischiarsene
delle pre-esistenze perché le remore poste dal passato
storico sono irrilevanti o nulle, trattandosi di società
giovani, con un breve passato alle spalle, anche se non mancano
esemplari di questa tipologia persino nella nostra vecchia
Italia carica di storia (Massimiliano Fuksas, per esempio).
I conservatori invece nascono in genere in territori di cultura
antica, ricca, importante e perciò condizionante, dove
c’è molto da conservare, o quanto meno da non
buttare a cuor leggero. Inguaribilmente affetti da kainotetofobia,
che secondo l’etimo greco significa paura dei cambiamenti
e delle novità, di tutto ciò che non è
noto, compreso e riconducibile a canoni consolidati, coltivano
tenacemente questa paura, la quale per la verità ha
anche i suoi aspetti positivi, poiché attiva utili
meccanismi di difesa, quantomeno a livello limbico.
Il nuovo ci fa temere l’invalidazione delle credenze
assimilate e divenute parte della nostra identità individuale
e collettiva, ed averne timore è un innato ed inevitabile
retaggio antropologico, la reiterazione del comportamento
del nostro antenato preistorico che, indifeso davanti all’imprevisto
a causa della propria ignoranza, temeva ogni novità
ed ogni dirottamento da una realtà nota e quindi dominabile,
cosicché questa paura significava spesso la garanzia
della propria sopravvivenza.
Ogni cambiamento, l’eradicazione di un passato rassicurante
perché noto, la distruzione di punti di riferimento
conosciuti comportano per la psiche un’elaborazione
simile a quella di un lutto, la presa di coscienza della necessità
e dell'inevitabilità del cambiamento, infine l’accettazione
di un nuovo stato delle cose ed il conseguente adattamento
alla varietà delle situazioni della vita individuale
e della storia collettiva.
Gli architetti conservatori hanno qualche difficoltà
a compiere questo cammino, perciò praticano il conservatorismo
inteso come equilibrio arcaico ed immutabile tra uomo, ambiente,
storia e cultura, nel maggior rispetto possibile del contesto
esistente.
L’equivoco che intercorre tra l'evocazione presente
del ricordo e ciò che è stato veramente, il
dubbio se sia il ricordo un'immagine somigliante al fatto
di cui custodisce l'impronta o piuttosto non oscilli arbitrariamente
tra invenzione e realtà, la relazione tra l'essere
stato e il non essere più, costituiscono una problematica
ontologico-epistemologica che non è assurdo estendere
all’architettura, dove l’aspetto fisico del ricordo
non necessita di sforzi immaginativi e rappresentativi , perché
l’immagine permane reale nel suo aspetto concreto (pietra,
mattone, ferro ecc.), ma dove le attribuzioni che le si legano
sono frutto di una elaborazione, individuale e collettiva,
oggetto di un dibattito storiografico centrato sul ‘
non dimenticare’.
E l’architettura ‘in stile’ ripropone, per
non dimenticare, valori positivi, o ritenuti tali, di un passato
più o meno remoto, nella versione che la storia ce
ne fornisce, e quindi senza certezze sulla loro reale veridicità,
nella speranza di riprodurre o conservare lo stato delle cose
com’era e com’è.
Il concetto non è così lineare come potrebbe
sembrare, poiché nel momento in cui si compie un atto
di architettura lasciando un ‘segno’, la realtà
dei luoghi muta, il contesto viene modificato e si viene a
creare un nuovo assetto, e quindi un altro contesto, entro
il quale il nuovo, seppure ‘in stile antico’,
traccia un prima e un dopo compiendo un’azione di disturbo
e cambiando le carte in tavola. Paradossalmente, si finisce
per conservare qualcosa che non è più la stessa
cosa che si voleva conservare, vanificando l’intenzione
iniziale.
Per dirlo con parole di Sandro Lazier (Sempre
a proposito di "contesto", Antithesi, 2001):
“L’antica querelle tra antico e moderno, riproposta
negli ultimi anni e difesa dal pensiero neostoricista, non
ha importanza sul terreno del confronto logico-critico in
quanto, da un punto di vista linguistico e quindi architettonico,
ricostruire in stile antico (al di là del fatto che
l’architettura comunque non è stile) nel contesto
antico nega e contraddice il pretesto storico nel quale viene
inserito il nuovo, semplicemente perché il segno deve
necessariamente dichiarare un prima ed un dopo, deve logicamente
condurre da un pre-testo pre-scrittura ad un con-testo post-
scrittura. L’onestà e la verità del segno-evento
che si vuole scrivere può solo essere contemporaneo
all’atto scrittura, senza imbrogli e camuffamenti, pena
la negazione e l’esaurimento della comunicazione, del
linguaggio che la dichiara e, alla fine dell’architettura.”
E’ evidente che questo dualismo culturale non può
che alimentare l’incertezza per un mondo futuro che
potrà essere pieno di grattacieli sghembi oppure di
villaggi in stile country, falso-rustico o pseudo-antico,
aprendoci per un attimo l’alienante visione di città
divise in due, dove si passa dalla megastruttura a forma di
comodino della Kartell al centro commerciale in stile vernacolare,
perché così sembra meno supermercato (doppia
falsificazione, della forma e della funzione).
Ma per fortuna esiste la via di mezzo, alla quale pare anche
il Buddha sia pervenuto dopo aver tentato scelte opposte e
sulla quale gli architetti di oggi potrebbero/dovrebbero ragionevolmente
incamminarsi anche senza praticare lo zen, semplicemente convincendosi
che ‘antico’ non è necessariamente ‘bello’,
spesso è solo vecchio, con la sua carica di significati
positivi e negativi e cambiare non sarà un’operazione
indolore, ma necessaria.
Global e local sono i termini che esprimono oggi la sfaccettata
complessità culturale della nostra società,
secondo due opposte direzioni, una centrifuga ed una centripeta
nei confronti della tradizione, apparentemente inconciliabili:
forse il futuro è glocal, ed è glocal un’architettura
che colga l’eredità del passato, interpretato
come premessa del futuro che verrà, in una continuità
storica che non vuol dire portarsi dietro bagagli inutili,
ma capacità di scegliere ciò che va trasmesso
da ciò che va abbandonato, senza impuntarsi in una
sterile recherche du temps perdu ed equilibrare il
desiderio di novità con il bisogno di sicurezza, due
esigenze prettamente animali.
Il passato relativamente recente è ricco, in Italia,
di architetti, alcuni operanti in un delicato periodo di trapasso
da un eclettico passatismo ad un modernismo razionalista,
che hanno saputo interpretare in chiave contemporanea il significato
di ‘tradizione’ come cambiamento che non cancella
il passato, ma che lo rende partecipe del futuro.
Quaroni, Tafuri, Figini e Pollini. BBPR, De Carlo, Cervellati,
Mollino, Gardella, Albini, Ridolfi, Michelucci ……
sono numerosi i maestri dell’ Italian Style
per i quali, essendo priorità indiscussa impostare
il futuro senza distruggere la memoria, la tradizione né
è stata un limite alla libertà espressiva, né
si è ridotta al passivo ripescaggio di vecchie tipologie
in una nostalgica ed anacronistica rilettura formale.
Ciò
anche quando, nel periodo storico del cosiddetto boom economico,
alcune realizzazioni rispecchiano l’aspetto colto della
cultura borghese ed accanto all’edilizia popolare dell’emergenza
abitativa del dopoguerra ed ai centri storici recuperati si
allineano graziosi villaggi di seconde case e costosi quartieri
residenziali, sempre tuttavia nel nome della ricerca di una
continuità dei modelli socio-comunitari tradizionali
locali.
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