Oggi, in settori specifici quali
il design e la produzione seriale di elementi di arredo o componenti
prefabbricati edilizi, si è giunti al concetto di multipli e multimoduli, di sottomultipli e sottomoduli estremamente frazionati,
per esigenze di praticità e flessibilità in sede
di progettazione e realizzazione.
Questi sommari riferimenti vogliono introdurre un concetto che
è tra i pochi rimasti immutati nel corso della storia
dell’umanità: “quando si pensa all’architettura,
si pensa ad un’arte abitata, con un corpo umano che si
muove al suo interno e l’architettura che si adatta ad
esso”.(Bassam Lahoud, ‘Body Architecture’)
Tant’è vero che il nostro linguaggio ricorre comunemente
a metafore mutuate da questo accostamento: si parla di città-corpo
(un concetto inaugurato dal De Architectura di Vitruvio), dotata
di ‘arterie’, ‘cuore’, ‘polmoni
verdi’, ‘viscere’, divenuta poi città-organismo
nella concezione ottocentesca della metafora organicistica,
si parla dello ‘scheletro’ di una struttura, del
‘braccio’ nell’articolazione di una planimetria,
si parla dell’architettura 'pelle e ossa' di Mies van
der Rohe, dell’architettura ‘organica’ di
Frank Lloyd Wright, interpretazioni antropomorfe di un concetto
di architettura radicato nella nostra origine biologica.
Per inciso, voglio ricordare che l’architettura, nata
in origine per rispondere a necessità primarie, per difesa
dai pericoli esterni e dai rigori climatici, come riparo, come
involucro protettivo, come ‘abito’ dell’uomo,
secondo una curiosa teoria di Gottfried Semper, architetto e
teorico tedesco dell’ottocento che conferma sotto un originale
punto di vista il rapporto corpo-architettura, si sarebbe poi
sviluppata come architettura ‘abitata’ grazie alla
pratica della tessitura, tutta femminile, attraverso la quale
veniva costruito l’abito per il corpo. Da lì avrebbero
infatti preso spunto le costruzioni arcaiche fatte di strutture
intrecciate (tende e capanne), ‘tessute’ sull’esempio
di quanto facevano le donne della tribù.
A similitudine del corpo umano, in cui la pelle, in osmotico
contatto con l’esterno, definisce materialmente il confine
tra il fuori del mondo reale e il dentro dello spazio interiore
del pensiero, della memoria, dei sentimenti, così l’architettura
racchiude lo spazio interno dell'esperienza quotidiana, direttamente
correlato con aspirazioni e paure psichiche individuali, differenziandolo
da uno spazio esterno collettivo e relazionale.
Giocato sull’antinomia dentro-fuori di due mondi complementari,
il rapporto corpo-architettura realizza una fondamentale opera
di mediazione fra due limiti estremi rappresentati da una parte
dalla realtà storica, ciò che già esiste,
la materia, vivente o inerte, l’involucro visibile, e
dall’altra da ciò che è destinato a riempirlo
e ad informarlo in quanto contenuto, di per sé senza
luogo, senza spazio, senza forma: l’interiorità
psicologica per il corpo e la funzione per l’architettura.
Come afferma Bernard Tschumi, "Il corpo è
sempre stato sospetto in architettura: perché ha posto
i propri limiti alle ambizioni architettoniche più estreme.
Disturba la purezza dell'ordine architettonico. Equivale a una
pericolosa proibizione", in quanto elemento condizionante
ed inquinante rispetto alla pura virtualità del progetto,
causa di contrapposizione tra lo spazio architettonico inteso
come costruzione mentale e lo spazio dell’uomo inteso
come pura esperienza fisica.
Tuttavia il legame corpo-architettura è sempre stato viscerale, ingarbugliato, intrecciato
e inestricabile tanto che la fruizione dell’architettura,
al di là di ogni lettura intellettualistica, teorica,
culturale, stilistica, formale ecc. finisce inevitabilmente
per identificarsi, nella sua chiave di lettura meno concettuale,
come esperienza sensoriale, quindi alla portata di tutti: guardare,
toccare, ascoltare, annusare in un diretto corpo a corpo tra
carne viva e materia inerte, entro un turbine di sensazioni
fisiche e psichiche indelebilmente connesse, metafora dell’eterno
confronto tra psyche e soma.
E’ sempre Tschumi che suggerisce una rilettura modernizzata
delle categorie vitruviane venustas-firmitas-utilitas che le
muti in linguaggio-materia-corpo, dove il corpo suggerisce,
sì, l’aspetto utilitaristico e funzionale dell’architettura,
ma anche la sua fruizione edonistica e sensoriale.
Le sensazioni fisiche indotte dall’architettura sono infatti
reali e immediate, ancorché inconsapevolmente vissute
dal corpo, la psicosomatica (branca della psicologia clinica) ha da tempo scandagliato le relazioni
che intercorrono tra spazio, corpo e mente, appurando come lo
spazio architettonico possa generare veri e propri stati di
coscienza e come diverse organizzazioni spaziali diano adito
a specifici effetti sul sistema nervoso e sui principali parametri
vitali (respirazione, pressione, circolazione ecc.).
E se uno spazio ingombro sollecita l’attività dell’emisfero
cerebrale sinistro, razionale e analitico, che tende a riconoscere,
identificare e classificare gli oggetti, mentre uno spazio vuoto
induce al lavoro l’emisfero destro, più dotato
di facoltà intuitive e creative, si può comprendere
come dimensioni e proporzioni, forme, colori, distribuzione,
occupazione degli spazi producano risposte biologiche ed emotive
diverse in grado di scatenare precise risposte fisiche differenziate,
anche in funzione del grado soggettivo di identificazione con
il proprio spazio e con il proprio corpo.
A causa di questi meccanismi il corpo è in grado di esprimere
attraverso una procedura gestuale non casuale le influenze esercitate
dall’architettura ricorrendo ad un paralinguaggio irrazionale
e incontrollato, il gradino meno evoluto della comunicazione,
ma non per questo il meno articolato e variegato, di valenza
o universale o talmente specifica da essere in grado di identificare
anche un repertorio culturale preciso.
L’esperienza diretta dell’architettura, senza mediazioni
culturali, può essere compiuta da chiunque semplicemente
percorrendo le vie di una città, entrando in un edificio,
abitando, lavorando, non è necessario sapere, conoscere,
capire, ricordare, è sufficiente ‘esserci’.
E’ così che trovarsi sotto il colonnato di un tempio
greco accentua la consapevolezza della verticalità e
della forza di gravità e la presa di coscienza della
postura eretta (grazie alla ‘colonna’ vertebrale),
una struttura gotica induce ad alzare il capo e gli occhi verso
l’alto, inseguendo la fuga mistica verso il cielo delle
lesene lineari, tendendo verticalmente la muscolatura del corpo
in una postura di chiara valenza simbolica e spirituale, la
visione di un’infilata prospettica rinascimentale o razionalista
(preferita dall’emisfero sinistro) indirizza a percorsi
rettilinei e direzionali mentre la semplice osservazione di
un’architettura barocca induce a movimenti rotatori e
percorsi curvilinei.
C'è chi ha voluto intravvedere in questi fenomeni la
possibilità di una sorta di architecture-therapy,
sull’esempio di ciò che si fa con successo attraverso
la pratica artistica, e sull’argomento è d’obbligo
citare come precursore Rudolf Steiner, l’inventore dell'Antroposofia,
progettista del Goetheanum e di una dozzina di edifici pensati
in funzione di un approccio fisico all’architettura di
grande originalità.
Questo mio discorso vuole sottolineare la componente
profondamente umana dell’esperienza del fare e del fruire
l’architettura e la possibilità di un approccio
emotivo ed istintivo che per secoli, ingiustamente, è
stato delegato solo all’arte.
Qualcuno ha detto che l'architettura è il luogo dell'amore,
il luogo per amare la propria casa, la propria moglie, le proprie
cose e per amare gli architetti …… ma, aggiungerei,
soprattutto per amare l’architettura.
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