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"Milano è una brutta e mal combinata città..."
di Vilma Torselli
pubblicato il 10/11/2008
Probabilmente se Milano, anziché in Lombardia, fosse nel Texas, sarebbe una città bellissima .....
"Carlo Emilio Gadda e l’architettura" è il titolo di un dibattito tenutosi alla Triennale di Milano il 30 Novembre 1993, che prende spunto da una sua frase, tratta dal noto "Libello" del 1938, "Milano è una brutta e mal combinata città..." , come ben sanno tutti.
Per inciso, ho sempre pensato che un dibattito sull’architettura centrato sulle parole di uno scrittore, seppure ingegnere elettronico, dovesse per equità essere accompagnato da un omologo dibattito sullo scrivere centrato sulle parole di un architetto, il che non è mai accaduto, forse perché, per dibattere, gli scrittori sono molto più bravi degli architetti ed in un certo senso, prevaricano.

Quella della bruttezza di Milano è una questione annosa, un’aspettativa costantemente delusa, una speranza incompiuta e, forse, un destino che non sta scritto nello sviluppo delle città, di nessuna città.
Probabilmente se Milano, anziché in Lombardia, fosse nel Texas, sarebbe una città bellissima, ma in Italia, dove è presente più del 50% dei siti e dei reperti archeologici di tutto il mondo, dove si trova l'80% delle opere d’arte di tutta la parte conosciuta del pianeta, beh, qui è un pò dura vedersela anche con un piccolo paesino dell’Umbria o della Toscana.
Gadda porta avanti una tesi che forse già nel '38 poteva odorare di aria fritta, quella di un'architettura sociale, esorbitante dai "circoscritti motivi del committente", un’architettura che faccia sue le motivazioni "percepite dalla generosità civile" tanto che, egli dice, "per essere un buon architetto bisogna essere un buon cittadino, e avere anima profondamente sensitiva, onesta e cognitiva".

È una chiave di lettura dell’architettura e soprattutto del fare architettura, filosofica, morale, etica, legata al periodo storico in cui è stata scritta e probabilmente alla vicenda personale di chi l’ha scritta, ma probabilmente anche all’ignoranza architettonico-urbanistica dell'ingegnere, o meglio ad una sua personale concezione "letteraria" dell’architettura.

Una città costruisce la sua fisionomia architettonica nel tempo, portandosi dietro nei secoli ciò che è stato fatto, un’architettura non è un libro, che se non piace resta invenduto su uno scaffale e nessuno sa neppure della sua esistenza, l’architettura non si può nascondere, siamo obbligati a guardarla e a leggerla storicamente perché rappresenta una traccia dell'uomo concreta e visibile, dove tutto concorre al risultato finale, nel bene e nel male.
Per questo gli scrittori falliti sembrano meno numerosi degli architetti falliti, perché non sono obbligati a mettere in piazza, o in strada, i loro fallimenti.

La Milano degli anni '30 è quella di Gio Ponti, di Figini e Pollini, di Giovanni Muzio, del giovane Terragni, di Mattioli, di Lingeri, di Griffini e tanti altri validi architetti milanesi. È brutta la Milano che hanno costruito allora e che ci hanno lasciato? Cos'è un'architettura "brutta"?
Se si accetta il concetto che l’architettura esprima lo spirito di un'epoca, di una civiltà, di un’etnia anche quando sembra frutto di una geniale pensata individuale, espressione di qualcosa che è nell’aria e che, prima o dopo, un architetto sarà in grado di intercettare ed interpretare, allora è difficile fare colpe o graduatorie di merito, perché l’architettura (brutta) è tale non, o non solo, per incapacità professionale dei progettisti, ma perché specchio di una società (brutta). Persino Gaudì, nella sua solitaria genialità e originalità lontana da ogni stereotipo, coglie lo spirito del tempo, lo Zeitgeist romantico, e non fa altro che parlare espressionista come Van Gogh, come Munch, in un dialogo da lontano: anche lui, come Picasso, non cerca ma trova quello che, seppur nascosto, c’è.
Milano è una città bottegaia, essenziale, con una sua cultura rustica di stampo celtico, spiccia, laboriosa, ha l’architettura che si merita, che solo per il fatto di essere "giusta" per i suoi cittadini, è anche "bella", perché se Milano fosse una città raffinata, estetizzante, pervasa da quella che Gadda chiama "una coscienza d’arte", allora ci abiterebbero i Fiorentini o i Veneziani, non i Milanesi!
E se Gadda mostra di ignorare o non capire le "bellezze" di Milano è perché non le sa cercare, quindi non le può trovare.
Ciò che è strano è che una frase che già nel '38 rappresentava la scoperta dell’acqua calda, sia divenuta il clou di un dibattito relativamente moderno (siamo nel '93) nel quale quella frase sembra la ciliegina della demagogia sopra la torta dell’ovvietà.
Tuttavia su una cosa si può essere d'accordo con Gadda: il Duomo di Milano è irrimediabilmente brutto e forse proprio per questo esprime tanto efficacemente lo spirito della città che lo ospita, brutta, anche lei, secondo un giudizio strettamente estetico.
Ed è brutto ed incongruo il pomposo contesto ottocentesco, i portici e la galleria di Corso Vittorio Emanuele, l'enfatico monumento equestre a Vittorio Emanuele II, il più recente Arengario, dimensionalmente inadeguata la piazza antistante, uno spazio ampio ed indifferenziato nel quale la tensione verticalizzante del gotico si diluisce e perde incisività: basta osservare come, nella visione da lontano, ponendosi al margine della piazza opposto alla facciata, a causa della distanza si perdano i particolari decorativi e risalti solo la massiccia e sgraziata impostazione del fronte a capanna di chiara derivazione romanica, basta pensare quanto più suggestivi siano gli esigui spazi antistanti le cattedrali d'oltralpe a Reims, a Coutance, a Chartres, dove il visitatore è costretto ad una visione d'insieme dell'edificio inevitabimente da vicino, spinto così ad alzare il capo e lo sguardo verso l'alto in un gesto che ha anche un forte significato simbolico, alzare gli occhi al cielo, in metaforica contemplazione del divino.

Iniziata nel 1387, la costruzione del Duomo non è ancora finita, lo sanno bene i milanesi che passano davanti alla cattedrale ed è più il tempo in cui la vedono impacchettata da teli provvisori e ponteggi innocenti che quello in cui riescono a coglierne la struttura libera ed agibile per intero, non per niente a Milano, di una cosa che si prolunga oltre ogni limite temporale accettabile, si dice che "sembra la fabbrica del Duomo."
Ancora oggi la Veneranda Fabbrica del Duomo ha in concessione le cave di marmo rosa di Candoglia dalle quali viene esportato il materiale, incessantemente cavato e lavorato per una manutenzione pressochè senza soluzione di continuità, come da ordine impartito nella Lettera patente di Gian Galeazzo Visconti ai Deputati della Fabbrica in data 24 Ottobre 1387: “..... con il presente Decreto, ordiniamo al nostro Capitano del lago Maggiore, al Vicario di Locarno e al nostro Podestà di Intra e Pallanza e a tutti i nostri Ufficiali a cui spetta, di esigere in modo assoluto che per conto della Fabbrica della Chiesa maggiore della nostra città di Milano si possano cavare le pietre ...... su beni di coloro dove dette pietre si trovano e per reverenza a detta Chiesa si possano liberamente asportare e condurre senza alcun esborso di denaro, come sinora è stato fatto”.

Qualche pillola di storia per ricordare che agli albori del XII secolo scende dal nord dell'Europa un messaggio di forte spiritualità, la promessa di un regno ultraterreno al quale si può concretamente aspirare, dedicando ad un Dio che sta lontano nell'alto dei cieli cattedrali che sfidano le leggi di gravità, si arrampicano fra le nuvole, svettano superbe in un travolgente movimento ascensionale di colonne, lesene, nervature, guglie, pinnacoli e rampanti contrafforti esterni: in architettura e nelle arti visive nasce e si diffonde lo stile gotico.
Ll'Italia settentrionale, il Veneto, l'Emilia, la Lombardia, le regioni più evolute e ricche e più prossime alle terre d'oltralpe importano il nuovo linguaggio stilistico, anche senza condividerne appieno la concezione di fondo.
Come per tutte le cattedrali gotiche, la costruzione del Duomo di Milano rappresenta per la popolazione tutta, per l'arcivescovo Antonio da Saluzzo e per Gian Galeazzo Visconti, un momento storico di grande significato sociale, di straordinaria convergenza di intenti, di coralità perfetta, durante il quale paiono coincidere le aspirazioni e le aspettative di tutta la comunità sia laica che religiosa. Tutti si mobilitano per la fabbrica del Duomo, un evento epocale nel quale è importante esserci e, possibilmente, partecipare, intere famiglie si stabiliscono ai margini dell'area di cantiere, operai e carpentieri arrivano da tutta Europa, generazioni di scalpellini, pare 3500 persone, si avvicendano alla modellazione degli imponenti capitelli, delle 3300 statue, dei doccioni, delle guglie, il materiale che arriva dalle cave percorrendo i canali navigabili su enormi chiatte viene esonerato da tasse e gabelle, marchiato A.U.F. acronimo di Ad Usum Fabricae, da cui deriva l'espressione "a ufo", che ancora oggi vuol dire gratis.
È inevitabile che, nata sotto auspici particolarmente favorevoli, questa cattedrale sia destinata a divenire il simbolo di Milano e dei suoi abitanti che già allora, presumibilmente, erano intrisi di quelle virtù eminentemente borghesi, operosità, buon senso, fattività, pragmatismo, che ancor oggi li caratterizzano costituendo il loro pregio ed il loro limite.
I lombardi del milletrecento sono un popolo dal gusto severo che negli anni precedenti ha edificato le proprie chiese in stile romanico adottando, con grande senso pratico, un sistema strutturale molto compatto con coperture a volta in materiali ignifughi quali il mattone, ovviando così ai pericoli di incendio delle capriate lignee, con tozze torri a pianta equilibratamente quadrata e facciate a capanna di forma triangolare o a salienti, con una larga base d'appoggio saldamente piantata sul terreno dal quale le pesanti strutture sembrano elevarsi a fatica.
Splendido esempio di questa straordinaria stagione artistica è la basilica di Sant'Ambrogio.
Crede in Dio, il popolo milanese, ma diffida degli slanci mistici e sa che, per un sano equilibrio, la testa può stare tra le nuvole, ma i piedi devono essere piantati per terra, cosicchè opta per un compromesso estetico: il Duomo sarà un edificio moderno al passo con i tempi, sarà gotico, ma conserverà nella struttura e nella forma il ricordo delle radici romaniche della terra lombarda, dando così origine ad una architettura ibrida che esprime innanzi tutto la continuità culturale di una comunità che non vuol rinunciare alla sua identità, pur aprendosi alla cultura europea.
E così, pur essendoci tutti i vocaboli del gotico ufficiale, il discorso che ne viene fuori lascia molto a desiderare per la sua sintassi: lontano sia dall'esile eleganza verticalizzante delle cattedrali francesi o tedesche che dalla greve materialità del romanico italiano, questo "gotico fiorito" enfatizza gli stilemi d'oltralpe cogliendone più gli intenti decorativi che strutturali, tradendo così la fondamentale innovazione tecnico-architettonica introdotta dal gotico, quella di utilizzare per la prima volta in chiave strutturale elementi concepiti in funzione decorativa assemblati secondo una logica statico-costruttiva per divenire struttura portante.
Ciò che invece coglierà, a distanza di secoli, Antonio Gaudì per il quale proprio il gotico sarà un importante riferimento culturale, rivisitato in termini romantici ed espressionisti per una moderna sintesi tra l'aspetto statico-costruttivo e quello estetico-plastico.

Per questa sostanziale mancanza di "stile", il Duomo di Milano è brutto, eppur tuttavia esprime giustamente e correttamente, con grande coerenza concettuale nella sostanziale incoerenza stilistica, lo spirito di una città inelegante, rustica e schiva, "una brutta e mal combinata città".

link:
La piazza più bella del mondo
Ethical Architecture

Parmigiano e Coca Cola
Architetture lontane
Storia di Milano, il Duomo dai Visconti agli Sforza.

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Così commenta Pietro Pagliardini:

Nella relativizzazione della categoria di brutto e bello riferita alla città c’è del vero. Ogni città “vera” (ma esistono città non vere?) riesce ad esprimere il carattere dei suoi cittadini: così Venezia ha la raffinatezza e talora la mollezza orientale, Siena rispecchia, in gran parte, la dolcezza del suo dialetto che trae origine, chissà, da quella del suo paesaggio (o sarà l’inverso?). La mia città, Arezzo, esprime la ruvidezza, la scontrosità che maschera pudore, che affonda nelle sue origini, mai rinnegate, contadine.
In questo senso Milano appare brutta ai non milanesi ma credo che ai milanesi sembri bellissima, perché è, come dici te, il loro specchio, e nessuno si vede realmente brutto per come è.
Però questo giudizio relativistico ha una sua validità se riferito a città che nascono e crescono come espressione di una coscienza collettiva, di un comune sentire, di un afflato spontaneo e condiviso e privo, cioè, della coscienza critica di costruire in base ad un progetto. La coscienza critica può darsi solo nel momento in cui appare la concezione storicistica che, sistematizzando il passato, permette di preparare alle scelte del presente pensando al futuro. La Milano del ‘300 cresceva e si espandeva, immagino, con statuti precisi che regolavano i rapporti di proprietà, che davano regole di allineamento, obblighi sugli affacci, al pari delle altre città coeve, ma tutte regole impostate su questioni di decoro cittadino e di carattere legale, non di scelte urbanistiche e architettoniche frutto di particolari discipline.
Nel momento in cui appare la figura dell’architetto come lo specialista cui demandare le scelte, cioè nel Rinascimento, inizia ad affievolirsi la coscienza spontanea (ce ne vorrà del tempo!) e inizia la storia dell’architettura. Da questo momento bello e brutto acquistano un preciso significato, sia in relazione all’autore che in relazione alle varie teorie che si integrano o si contrappongono. E’ per questo che oggi possiamo anche convenire che il Duomo di Milano sia “brutto” mentre, ne sono certo, ai milanesi sarà sempre apparso bello e, appena finito, addirittura bellissimo. Evidentemente i milanesi, come il loro Duomo, aspiravano più alla terra che al cielo e, in questo senso, l’edificio è bellissimo perché esprime il carattere del suo popolo, se è vero, come credo lo sia, ciò che dici te.
C’è qualcuno che potrebbe dire che un villaggio di capanne in Africa, che non abbia subìto l’aggressione occidentale delle lamiere, dette anche “bandoni”, sia brutto? Certamente no, perché è l’espressione spontanea dell’abitare di quel popolo, dunque è certamente bello. E se noi globalizzatori occidentali, o meglio noi colonizzatori, volessimo dall’alto della nostra potenza economica e culturale, costringere quel popolo a vivere in case come le nostre, con il pretesto dell’igiene ovviamente, anche se rispondenti maggiormente al nostro criterio di abitare e quindi più belle per noi, compiremmo in realtà una violenza incredibile, perché toglieremmo a quel popolo le sue radici innestandogli le nostre.
Non diversamente avviene con la globalizzazione attuale, dove siamo noi i colonizzati che abbiamo dovuto subire prima gli stessi interventi fatti altrove (Canary Warf a Londra uguale al World Financial Disctrict a NY) e dopo, cioè ora, i grattacieli ovunque e l’individualismo architettonico dell’archistar di turno.
Oggi, anzi no, ieri mattina, cioè fino al’esplosione del fenomeno archistar, il criterio di giudizio era molto diverso: persa del tutto la coscienza spontanea, nel mondo occidentale ma credo in buona parte del mondo, i progetti vengono fatti in base a scelte precise di carattere disciplinare e, anche se molti nascono in maniera casuale, nel senso che si tirano quattro linee basta sia, il giudizio che si dà di questi si basa in ogni caso su diverse concezioni architettoniche, ognuna delle quali stabilisce ciò che è brutto e ciò che è bello. Poi c’è la complicazione che ciò che è bello per una teoria è brutto per l’altra e qui nasce il dibattito e lo scontro.
E siamo punto e a capo: cos’è brutto e cos’è bello?
Saluti
Pietro


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