Il vocabolo 'storia' deriva dal greco 'istoréo',
che significa in origine fare un rendiconto, e poi esplorare,
indagare, interrogare e quindi venire a sapere, raccontare,
esporre, attività esercitata da un 'istor', termine
probabilmente di derivazione indoeuropea (radice vid, da cui
vedere), il testimone oculare dei fatti, colui che sa, che
conosce e che è quindi idoneo a narrare ciò
che ha visto.
Con la nascita della scrittura si attribuisce al messaggio
comunicativo, prima affidato all’oralità del
racconto, una vita autonoma, sottraendolo al contesto culturale
dell'autore, conferendogli un carattere universale al di là
delle limitazioni spazio-temporali, rendendolo accessibile
anche a chi non appartenga al contesto culturale di origine.
Nasce così la narrazione storica, riguardante eventi
del passato che meritano di essere tramandati perché
la loro conoscenza è ritenuta utile per la specie,
sia a livello pratico che puramente speculativo, ed è
dalla storia che l’umanità attinge quel sapere
cumulativo collettivo che costituisce la sua cultura.
Questo, perlomeno, è quello che noi occidentali intendiamo
per storia, concetto di origine greca che non ha necessariamente
un corrispettivo nelle altre culture. Per noi la storia scorre
verso il futuro, ogni evento che accade è nuovo rispetto
al passato e la storia è direzionalmente orientata
secondo la freccia del tempo verso una meta finale, il che
permette di darle un ‘senso’ ed un ‘verso’,
implicitamente confidando nel futuro indefinitamente progressista
dell’occidente.
Ovviamente il problema principale in siffatto orientamento
è quello di discernere tra le notizie e tra le fonti
che le contengono quelle che sia utile tramandare, vere ed
autentiche, da quelle non attendibili, senza che questo sia
tuttavia garanzia di veridicità della storia.
Perché la soggettività del testimone, dello
storico che scrive il racconto dei fatti sui quali vuole inevitabilmente
dire la sua, è un elemento inquinante e deformante
della loro realtà ("Io non voglio raccontare
la storia che mi hanno tramandato, ma come è parsa
a me", scrive Georges Duby, celebre storico del
medioevo) ed è ancora più rilevante la mistificazione
indotta dalla casualità del reperimento e dell’accesso
alle fonti, dalla loro unilateralità e dalla censura
sui loro contenuti, oltre che, naturalmente, dalle alterazioni
e dai deterioramenti causati dal tempo.
“Noi raccontiamo la storia delle Guerre del Peloponneso
perché costui ha scritto un'opera che la racconta,
però vorremo avere anche il racconto di un altro, di
tutt'altra città, di tutt'altra provenienza. Non abbiamo
nessuno storico spartano, per esempio, che ci dica i fatti
di quella guerra. Lui era ateniese, era un uomo di grande
equilibrio probabilmente, almeno lo dice di se stesso. Noi
gli dobbiamo credere. Però non ci basta. E' come se
della Seconda Guerra Mondiale noi avessimo soltanto le Memorie
di Churchill, per esempio, che fu un grande statista, un grande
scrittore. Però accanto a quelle memorie c'è
una miriade di documenti che le mettono in crisi”
(Luciano Canfora, 'A che serve la storia?', 1998)
In realtà la storia andrebbe continuamente riscritta
alla luce delle nuove acquisizioni di documenti o testimonianze,
avendo presente che forse gli eventi di importanza maggiore
magari non sono neanche documentati e che i risultati della
ricerca storica sono sempre provvisori e possono in ogni momento
venir revisionati e cambiati.
La nostra storia dell’architettura è stata fino
ad ora per eccellenza una narrazione lineare e ciclica, sviluppantesi
per cicli temporali in cui si sono affermati e succeduti i
diversi stili, partendo dalle caverne e arrivando ai grattacieli
attraverso un percorso ascendente sia riguardo alle conquiste
tecnologiche sia alla qualità progettuale, nell’ipotesi
che l’evoluzione della specie sia paradigma di quella
dell’architettura (e degli architetti).
Paradossalmente, nel momento in cui rispetto a solo pochi
decenni fa disponiamo di sbalorditivi mezzi di comunicazione
e la documentazione sulla storia contemporanea è vasta
come non mai, si impone la necessità di doverla selezionare
drasticamente, eventualmente, come suggerisce Henry Kissinger
in un suo libro, anche a costo di bruciare gran parte dei
documenti: una battuta di spirito che tuttavia bene esemplifica
la difficoltà dello storico, alle prese con la scarsità
delle fonti se si parla di storia antica, ma oggi con documenti
in esubero tra i quali può essere arduo scegliere quelli
realmente importanti per tramandare ai posteri la storia dell’architettura contemporanea.
Che è molto documentata.
Troppo.
La storia non è una scienza esatta, a volte è
bugiarda, a volte solo reticente, è camaleontica, si
adatta ai tempi, si sottomette ai padroni del momento, è
condizionata dal potere, serve per celebrarlo, per mitizzarlo,
per occultare verità con le quali non si vuole confrontare,
per aggiungere menzogne che lo rafforzino.
“Sono sempre coesistiti tre poteri: quello religioso
[…….] quello militare [………]
quello mercantile [……]. Ognuno di questi poteri
amministra il tempo, controllando gli strumenti per la sua
misurazione: osservatori astronomici, clessidre, orologi marcatempo
[.……]. A turno, ciascuno dei tre poteri dominanti
(religioso, militare e mercantile) ha controllato le ricchezze.
Si può allora raccontare la storia dell'umanità
come la successione di tre grandi ordini politici […..]
“(Jacques Attali ‘Breve storia del futuro’
2008), sono questi i poteri che tengono in ostaggio ed orientano
la storia e tutte le manifestazioni che concorrono a costruirla,
compresa l’architettura.
Se il potere religioso non avesse avuto tanta forza, la storia
dell’architettura occidentale non sarebbe quel racconto
di cattedrali e chiese che è diventata nei secoli,
celebrando con una tipologia architettonica nuova un potere
nuovo, quello del cristianesimo, così come oggi l’architettura
dell’elite mediatica che gestisce il grande circo dell’archi-business
celebra un potere deideologizzato, quello economico, che per
essere senza identità specifica percorre trasversalmente
ogni situazione culturale e sociale, perfettamente adattabile
ad un mondo globalizzato a morfologia mutante, in continuo
cambiamento: "La società in cui ci muoviamo,
il mondo globalizzato, effimero ed incerto, che si popola
di uomini costantemente alla ricerca di qualcosa d'altro,
investiti dalla velocità di cambiamento [……..]
il mondo del transitorio, delle città alienanti, dei
legami fragili e mutevoli, dell'inquietudine, dell'esasperata
ricerca della felicità, del conformismo, del liberismo
selvaggio, del consumismo ossessivo, dell'individualismo,
della disgregazione dell'azione collettiva, di una politica
di vita egocentrica e della tragica crisi dei valori: l'unico
imperativo è la flessibilità, l'instabilità,
la precarietà e l'avvicinarsi all'istantaneità
assoluta". E' una società che sfugge, in continuo
cambiamento, "liquida". “(Zygmunt Bauman,
'Vita liquida', 2006), una società che, coerentemente,
ha scelto di esprimersi in un’architettura “liquida”,
dove corpo e mente, tecnologia e biologia e tutte le esperienze
psico-sensoriali possibili si concentrano e si compenetrano,
un’architettura ipermediale, trans-disciplinare, trans-territoriale,
quella che Marcos Novak definisce “trans-architettura”
(del resto si autodefinisce un trans-architetto, lasciando
qualche spazio ad un facile umorismo).
Questa fiducia estrema e totale nelle potenzialità
del progresso tecnologico non è scevra da rischi: “Le
tecnologie della comunicazione pretendono di abolire ogni
distinzione, di ingannare gli ostacoli del tempo e dello spazio,
di dissolvere le oscurità del linguaggio, il mistero
delle parole, le difficoltà delle relazioni, le incertezze
dell'identità o le esitazioni del pensiero. Le evidenze
dell'immagine, ritrasmesse da schermi molteplici, hanno forza
di legge e instaurano la tirannia del presente"
(Marc Augé, "Narrazione, viaggio, alterità"):
è così che il concetto futurologico di progresso
lineare e ciclico della storia è entrato in crisi.
E la storia dell’architettura non può che diventare
una storia di superficie, né lineare né ciclica,
bidimensionale, priva di profondità, il racconto in
presa diretta di un tempo accelerato e precario che non ha
‘tempo’ di sedimentare come storia.
Sempre Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate
dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano.
Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione,
che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut),
e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine
del tempo che ha perduto la storia o che la storia
ha perduto” (Marc Augé, 'Rovine
e macerie. Il senso del tempo', 2004).
In una recente intervista dichiara inoltre: “Viviamo
in un' epoca di tempo veloce, tutto si è accelerato.
La scienza è diventata troppo rapida per poterla conoscere
adeguatamente e per prevedere applicazioni e conseguenze.
Che cosa ci darà fra trent' anni? Non riusciamo a immaginare
il futuro, siamo vittime di un presente che ci sommerge, ci
virtualizza. La storia sembra sia diventata un fatto
mediatico”.
Bisogna “reimparare a sentire il tempo per riprendere
coscienza della storia" e capire che l’architettura
di un presente senza passato è destinata ad essere
anche senza futuro.
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