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Terremoto e ricostruzione
di Vilma Torselli
pubblicato il 5/06/2009
"La memoria va oltre il rapporto tra estetica e documentazione e implica la scelta: l’operazione che ci permette di distinguere ciò che merita di essere conservato da ciò che invece può essere dimenticato"

“ …. La memoria va oltre il rapporto tra estetica e documentazione e implica la scelta: l’operazione che ci permette di distinguere ciò che merita di essere conservato da ciò che invece può essere dimenticato". (Giuseppe Cristinelli, ordinario di Restauro Architettonico all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, vicepresidente del Comitato Cracovia 2000)

Personalmente sono contraria all’accanimento terapeutico, sia sulle persone che sulle cose, ma è materia molto delicata e per questo non regolamentata, e forse non regolamentabile, secondo precisi paletti orientativi, tuttavia mi sento di dire che, specie in Italia, sono troppi i casi di accanimento conservativo verso edifici o opere di dubbio merito o in stato irrecuperabilmente comatoso.

Difficile stabilire un confine al di sotto del quale un bene artistico o architettonico rimane se stesso, il limite a cui ci si può spingere con il recupero senza produrre un edificio che sia altro dall’originale.
Resa possibile e più facile da tecnologie in continuo perfezionamento, oggi “la conservazione non è più una tecnica, è un fine” o un insieme di fini: per gli abitanti locali la conservazione o la ricostruzione com’era-dov’era significa innanzi tutto recupero delle radici e ripristino dei canali psico-affettivi che legano un abitante al suo habitat, per l’Italia significa salvaguardia del proprio patrimonio storico ed eventualmente artistico, nei termini, in ogni caso, di mantenimento di una fruizione principalmente estetica dell’oggetto.
Perché spesso null’altro resta da salvare di edifici concepiti per un contesto socio-ambientale radicalmente mutato, dei quali la funzione è ormai obsoleta e svuotata di significato, incongrua rispetto ai tempi, spesso forzatamente rivisitata sotto le mutate spoglie di non meglio identificati spazi culturali, musei, gallerie, contenitori genericamente polifunzionali di incerta destinazione d’uso.
Infatti molte operazioni di recupero mostrano una sostanziale indifferenza nei confronti della funzione originaria degli edifici, la quale, a differenza dei caratteri formali e stilistici, non è un valore restaurabile, né decontestualizzabile, né sostituibile, individuato com'è da parametri non ripetibili al di fuori del contesto storico di riferimento, nè è scindibile dalla forma che la ospita: come dice Sandro Lazier (Complimenti e auguri 2004) “La storia non è reversibile a piacimento e cercare di riproporla riesponendone la forma priva di autenticità (che è proprietà solo della materia) procura l’inganno della mente (che è qualità del teatro e della rappresentazione). Restaurare un mobile, un quadro, un edificio o un quartiere non vuole dire riportarlo alla foggia originaria (quale, poi, non si è mai capito con rigore) mediante la fedele riproduzione di una immagine scenografica, ma significa il tentativo di fermare il deterioramento della materia che ne costituisce prima l’oggetto e soltanto dopo la forma.”

Va anche aggiunto che tutto questo surplus di recuperi indirettamente frena la creazione di nuove strutture progettate in modo più mirato e specifico, tant’è che proprio in Italia, a differenza che nel resto d’Europa, scarseggiano musei moderni dal punto di vista architettonico e tecnologico (mi viene in mente solo il MART di Rovereto, a firma di Botta), che si pongano nel filone di una moderna concezione museale, come catalizzatori di linguaggi contemporanei ed attuali e non solo custodi di un'identità culturale sempre più incerta ed anacronistica.

Credo che l’esperienza estetica sia una, seppure con innumerevoli varianti, specie se si parla di architettura e arte visiva, coppia gemellare per eccellenza, e credo anche che, per questo motivo, non siano fuori luogo le teorie di Walter Benjamin applicate all’architettura.

Ogni antico edificio, alla stregua di un dipinto rinascimentale o di una scultura barocca, ha una sua ‘aura’, una sorta di hic et nunc, qualcosa di originario che ne custodisce l’autenticità, frutto di elaborazioni tecniche ed artistiche uniche e non imitabili, una sorta di sacralità che il fruitore recepisce legata all’idea di unicità e irripetibilità.
Nel caso della ricostruzione mirata ad ottenere una copia identica all'originale, quand’anche rigorosamente rispettosa delle sue caratteristiche tecnico-stilistiche, per rimediare ad un degrado fisiologico o dovuto a crolli per catastrofi naturali come nel caso del terremoto dell'Aquila, si può verosimilmente parlare di fine dell’aura, “Fine dell’aura significa fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni.” (Claudia Bianco)

L’opera d’arte, dice Benjamin, si dispiega tra due poli, Kultwert (valore culturale) e Ausstellungswert (valore espositivo), quest’ultimo incrementato dalla riproduzione fino a divenire prevalente: se accade che un edificio ricostruito tale e quale attinga, per chi non ne conosce la storia, allo stesso esito di quello originale non vuol dire che l’operazione compiuta sia corretta, ma semplicemente che l’inganno è stato attuato con grande abilità, ma sempre di inganno si tratta, per chi guarda, per chi lo vive, per la storia.

Paradossalmente, se l’atteggiamento degli uomini fosse stato sempre quello della conservazione e del ripristino, l’Italia sarebbe piena di basiliche paleocristiane e di mura medioevali e sarebbe impossibile leggere nelle nostre città la storia del rinascimento, del barocco, del neoclassicismo, così come potrebbe forse essere impossibile in futuro leggere la modernità. Certo se non si fosse mai restaurato, sarebbero andate irrimediabilmente in rovina meraviglie architettoniche quali la Cattedrale di Noto o la Franuenkirche di Dresda, e a questo punto mi pare che il cerchio si chiuda riproponendo la difficile scelta iniziale che impone di "distinguere ciò che merita di essere conservato da ciò che invece può essere dimenticato."

Ma se, come alcuni ritengono, “Gli architetti moderni [infatti] non sono affatto preparati a ricostruire i centri storici devastati dai terremoti” (Paolo Marconi, “Cosa fare in città come L’Aquila dopo il terremoto?") a chi ci si dovrebbe rivolgere allo scopo? E se gli stessi “dovrebbero cimentarsi, piuttosto che col sedicente ‘linguaggio moderno’, con la ricostruzione dei centri urbani abbandonati o terremotati” (idem) chi scriverà l’architettura della contemporaneità?

La modernità è rischiosa perché mette i gioco un intero sistema di valori consolidati, ma la Modernità, ha detto Jean Baudrillard "fa della crisi un valore, una morale contraddittoria, e suscita un'estetica di rottura".

Perché si dovrebbe perdere questa occasione?

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Queste riflessioni sono liberamente ispirate ad un post del blog di Pietro Pagliardini, con un link all'articolo del prof. Paolo Marconi


link:
La Carta del Restauro
La modernità, tramite tra passato e futuro
Sembra facile dire Museo ....
Il centro storico: fine della storia
Alien


DE ARCHITECTURA
di Pietro Pagliardini


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