“ …. La memoria va oltre
il rapporto tra estetica e documentazione e implica la scelta:
l’operazione che ci permette di distinguere ciò
che merita di essere conservato da ciò che invece
può essere dimenticato". (Giuseppe Cristinelli,
ordinario di Restauro Architettonico all’Istituto
Universitario di Architettura di Venezia, vicepresidente
del Comitato Cracovia 2000)
Personalmente sono contraria all’accanimento terapeutico,
sia sulle persone che sulle cose, ma è materia molto
delicata e per questo non regolamentata, e forse non regolamentabile,
secondo precisi paletti orientativi, tuttavia mi sento di
dire che, specie in Italia, sono troppi i casi di accanimento
conservativo verso edifici o opere di dubbio merito o in
stato irrecuperabilmente comatoso.
Difficile stabilire un confine al di sotto del quale un
bene artistico o architettonico rimane se stesso, il limite
a cui ci si può spingere con il recupero senza produrre
un edificio che sia altro dall’originale.
Resa possibile e più facile da tecnologie in continuo
perfezionamento, oggi “la conservazione non è
più una tecnica, è un fine” o un
insieme di fini: per gli abitanti locali la conservazione
o la ricostruzione com’era-dov’era significa
innanzi tutto recupero delle radici e ripristino dei canali
psico-affettivi che legano un abitante al suo habitat, per
l’Italia significa salvaguardia del proprio patrimonio
storico ed eventualmente artistico, nei termini, in ogni
caso, di mantenimento di una fruizione principalmente estetica
dell’oggetto.
Perché spesso null’altro resta da salvare di
edifici concepiti per un contesto socio-ambientale radicalmente
mutato, dei quali la funzione è ormai obsoleta e
svuotata di significato, incongrua rispetto ai tempi, spesso
forzatamente rivisitata sotto le mutate spoglie di non meglio
identificati spazi culturali, musei, gallerie, contenitori
genericamente polifunzionali di incerta destinazione d’uso.
Infatti molte operazioni di recupero mostrano una sostanziale
indifferenza nei confronti della funzione originaria degli
edifici, la quale, a differenza dei caratteri formali e
stilistici, non è un valore restaurabile, né
decontestualizzabile, né sostituibile, individuato
com'è da parametri non ripetibili al di fuori del
contesto storico di riferimento, nè è scindibile
dalla forma che la ospita: come dice Sandro Lazier (Complimenti
e auguri 2004) “La storia non è reversibile
a piacimento e cercare di riproporla riesponendone la forma
priva di autenticità (che è proprietà
solo della materia) procura l’inganno della mente
(che è qualità del teatro e della rappresentazione).
Restaurare un mobile, un quadro, un edificio o un quartiere
non vuole dire riportarlo alla foggia originaria (quale,
poi, non si è mai capito con rigore) mediante la
fedele riproduzione di una immagine scenografica, ma significa
il tentativo di fermare il deterioramento della materia
che ne costituisce prima l’oggetto e soltanto dopo
la forma.”
Va anche aggiunto che tutto questo surplus di recuperi indirettamente
frena la creazione di nuove strutture progettate in modo
più mirato e specifico, tant’è che proprio
in Italia, a differenza che nel resto d’Europa, scarseggiano
musei moderni dal punto di vista architettonico e tecnologico
(mi viene in mente solo il MART di Rovereto, a firma di
Botta), che si pongano nel filone di una moderna concezione
museale, come catalizzatori di linguaggi contemporanei ed
attuali e non solo custodi di un'identità culturale
sempre più incerta ed anacronistica.
Credo che l’esperienza estetica sia una, seppure con
innumerevoli varianti, specie se si parla di architettura
e arte visiva, coppia gemellare per eccellenza, e credo
anche che, per questo motivo, non siano fuori luogo le teorie
di Walter Benjamin applicate all’architettura.
Ogni antico edificio, alla stregua di un dipinto rinascimentale
o di una scultura barocca, ha una sua ‘aura’,
una sorta di hic et nunc, qualcosa di originario
che ne custodisce l’autenticità, frutto di
elaborazioni tecniche ed artistiche uniche e non imitabili,
una sorta di sacralità che il fruitore recepisce
legata all’idea di unicità e irripetibilità.
Nel caso della ricostruzione mirata ad ottenere una
copia identica all'originale, quand’anche rigorosamente
rispettosa delle sue caratteristiche tecnico-stilistiche,
per rimediare ad un degrado fisiologico o dovuto a crolli
per catastrofi naturali come nel caso del terremoto dell'Aquila,
si può verosimilmente parlare di fine dell’aura,
“Fine dell’aura significa fine di quell’intreccio
tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava
il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali,
e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione
fugace e ripetibile di riproduzioni.” (Claudia
Bianco)
L’opera d’arte, dice Benjamin, si dispiega tra
due poli, Kultwert (valore culturale) e Ausstellungswert (valore espositivo), quest’ultimo incrementato dalla
riproduzione fino a divenire prevalente: se accade che un
edificio ricostruito tale e quale attinga, per chi non ne
conosce la storia, allo stesso esito di quello originale
non vuol dire che l’operazione compiuta sia corretta,
ma semplicemente che l’inganno è stato attuato
con grande abilità, ma sempre di inganno si tratta,
per chi guarda, per chi lo vive, per la storia.
Paradossalmente, se l’atteggiamento degli uomini fosse
stato sempre quello della conservazione e del ripristino,
l’Italia sarebbe piena di basiliche paleocristiane
e di mura medioevali e sarebbe impossibile leggere nelle
nostre città la storia del rinascimento, del barocco,
del neoclassicismo, così come potrebbe forse essere
impossibile in futuro leggere la modernità. Certo
se non si fosse mai restaurato, sarebbero andate irrimediabilmente
in rovina meraviglie architettoniche quali la Cattedrale
di Noto o la Franuenkirche di Dresda, e a questo punto mi
pare che il cerchio si chiuda riproponendo la difficile
scelta iniziale che impone di "distinguere ciò
che merita di essere conservato da ciò che invece
può essere dimenticato."
Ma se, come alcuni ritengono, “Gli architetti
moderni [infatti] non sono affatto preparati a ricostruire
i centri storici devastati dai terremoti” (Paolo
Marconi, “Cosa fare in città come L’Aquila
dopo il terremoto?") a chi ci si dovrebbe rivolgere
allo scopo? E se gli stessi “dovrebbero cimentarsi,
piuttosto che col sedicente ‘linguaggio moderno’,
con la ricostruzione dei centri urbani abbandonati o terremotati”
(idem) chi scriverà l’architettura della contemporaneità?
La modernità è rischiosa perché mette
i gioco un intero sistema di valori consolidati, ma la Modernità,
ha detto Jean Baudrillard "fa della crisi un valore,
una morale contraddittoria, e suscita un'estetica di rottura".
Perché si dovrebbe perdere questa occasione?
******************
Queste riflessioni sono liberamente ispirate ad un post
del blog di Pietro Pagliardini, con un link all'articolo del prof. Paolo Marconi
link:
La
Carta del Restauro
La
modernità, tramite tra passato e futuro
Sembra
facile dire Museo ....
Il centro storico: fine della storia
Alien
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