Girando per le città dove spuntano
inaspettatamente edifici alieni che sembrano capitati lì
per sbaglio, visitando gallerie e musei, dove l'organizzazione
dell'arte assomiglia sempre più ad una catena di
montaggio grazie a mostre itineranti che propongono ovunque
lo stesso prodotto, è inevitabile chiedersi cosa
accomuni l’arte contemporanea e la contemporanea architettura.
Usando un facile ossimoro si potrebbe dire che queste
due discipline ‘possiedono’ una comune ‘mancanza’,
costituita dall’assenza del racconto.
Cosa ci racconta questo quadro di Cy Twombly?
Nulla, così come nulla ci racconta lo schizzo della
Disney Concert Hall di Gerhy, non possiamo leggere il significato
dei segni così come non possiamo leggere l'intenzione
progettuale dell’edifico perché non presenta
alcuna evidenza quella relazione tra segno e significato,
tra forma e destinazione d’uso che serve ad individuare
i termini di un racconto, quello che l’arte e l’architettura
stanno scrivendo da millenni sulla storia della nostra vita.
Ciò che si evidenzia quale elemento vagamente omologante
è, in entrambi i casi, la componente gestuale di
un discorso solitario declinato in ampie forme barocche,
fluide, tondeggianti, arrotolate, ariose, dal ritmo compositivo
imprevedibile: entrambe opere aperte, si configurano come
un flusso sull’orlo del divenire, secondo una logica
imprevedibile e mutevole.
Un quadro che non narra una storia, un’architettura
che non fornisce indicazioni funzionali, mentre costruiscono
un discorso strettamente individuale da parte degli autori,
al tempo stesso aprono all’osservatore la possibilità
di un’interpretazione strettamente individuale ed
eminentemente soggettiva.
In ciò assecondando una delle più tipiche
caratteristiche della cultura moderna, l'individualismo,
inteso come centralità dell’individuo a cui
tutto è permesso, nel nome di una radicale libertà
espressiva che instaura la priorità del singolo nei
confronti della collettività.
Il che rappresenta il capovolgimento copernicano del concetto
di individualismo rinascimentale, dove il primato del singolo
era mezzo per offrire alla collettività regole e
principi generali in grado di costruire una visione del
mondo razionale e condivisa, in virtù della comune,
presumibile razionalità della mente umana.
C’è poco di condivisibile nella visione di
Twombly, così come nell’architettura di Gerhy,
poiché non vi si può riconoscere nulla di
comune con la nostra esperienza, entrambe discendendo dal
personale background dei due autori e non riconducibili
a nessun significato generale, ma solo alle loro storie
individuali.
Non si capisce il quadro di Twombly se non si conoscono
i riferimenti ed i rimandi culturali, il vissuto personale
di quest’americano conquistato dal classicismo italiano
(dal '59 si è stabilito a Roma), non si capisce la
progettazione di Gerhy se non si parte dal nucleo di cheapscape
della sua residenza di Santa Monica, scintilla primigenia
della sua ispirazione.
Non si può leggere l’opera se non si hanno
sufficienti informazioni sull’autore, con procedura
contraria a quella che, fino ad ieri, ci portava alla conoscenza
dell’artefice attraverso la lettura del prodotto.
Arte ed architettura autodeterminate, sfuggono l’una
alla riconoscibilità della forma e l’altra
al palesamento della funzione anteponendovi una speculazione
intellettuale concettuale che, dietro una sbandierata libertà,
in realtà considera gli altri come obbedienti consumatori
onnivori ai quali è possibile somministrare ogni
cosa.
Questo fenomeno aderisce alla perfezione al concetto di
‘individualismo di massa’ (un altro degli ossimori
che costellano le contraddizioni della nostra società),
fondato sulla supposta esistenza di un’umanità
indifferenziata, inappartenente, sradicata, globalizzata,
secondo il demagogico concetto che “tutti gli uomini
sono uguali”.
Ed è proprio questo mistificato concetto di individualismo,
democrazia e libertà che favorisce “un
progressivo incentrarsi dell'uomo sull'io che appiattisce
e restringe le nostre vite e ne impoverisce il significato
in un miserevole narcisismo.” (Roberto Moro, "Lo specchio in frantumi", 2004).
Specie per gli architetti, specie per le archistar. |