Qualcuno ha definito l’architettura un libro di pietra, forse per questo, per la concretezza e la solidità della sua materia, l’architettura è non solo la più significativa tra le espressioni della creatività umana (così Paul Valéry in un dialogo immaginario tra Fedro e Socrate “Eupalinos ou l'Architecte”,1921), ma anche la più permanente e veritiera fonte storica sulla quale è possibile ricostruire il passato dell’umanità.
Se per un malaugurato maleficio ogni essere vivente sparisse dalla faccia della terra ed ogni biblioteca andasse in fumo, un esploratore alieno che percorresse strade deserte e città fantasma potrebbe costruire fedelmente e con dovizia di particolari la storia dell’umanità anche in mancanza di ogni testimonianza diretta o indiretta, semplicemente consultando quel libro granitico.
La sopravvivenza di questo singolare testimone di pietra si assicura attraverso la conservazione o il ripristino del bene architettonico, fondamentale perché la lettura sia attendibile è che l’architettura non menta e si esponga all’osservatore nella sua verità storica, senza trucchi, senza pudore e senza orpelli che celino la cesura cronologica tra passato e presente, applicando questo principio sia all’archeologia che all’architettura.
Ma cosa distingue l’architettura dall’archeologia? Quando scegliere la mummificazione del bene bloccandolo nello stato in cui si trova e quando il restauro che prevede la reintegrazione delle lacune e il successivo riutilizzo?
Non c’è una regola in base alla quale un manufatto debba diventare reperto archeologico o oggetto di restauro, se si debba scegliere un eterno presente privato di ogni divenire o un passato resuscitato ad una artificiale nuova vita: non è decisivo discrimine l’antichità del manufatto, paradossalmente una struttura antica può essere in condizioni migliori di una meno antica, né lo può essere la sola pretesa di conservarne la funzione, perché talvolta il valore documentale supera quello puramente funzionale. Potrebbe esserlo, banalmente, il fatto che esistano assai più teorie, protocolli, linee guida e regolamenti che riguardano il restauro architettonico rispetto a ciò di cui si dispone per quello archeologico, il che contribuisce fra l’altro a privilegiare uno ‘specialista’ piuttosto che un altro, creando ambiti specifici e separate competenze professionali dove in realtà sarebbe più logico e proficuo mantenere continuità di dialogo.
Ciò che distingue il restauro archeologico da quello architettonico, scrive Piero Giusberti (“Il restauro archeologico”, 1994), è comunque una linea sottile, la scelta di stare da un lato piuttosto che dall’altro va fatta sulla base del verificarsi o meno di un “trauma dell’abbandono” subìto dalla struttura e conseguente sospensione o perdita della funzione originaria. Quindi l’archeologo interverrebbe in caso di perdita della forma, nell’impossibilità di ricostruirla tale e quale, e con essa della funzione, mentre il restauratore interverrebbe quando l’organismo architettonico mantenga o possa mantenere entrambe.
In realtà non esiste per un edificio antico la possibilità di stabilire attraverso regole oggettive la liceità o la necessità di un intervento di recupero restaurativo, con la contemporanea riqualificazione funzionale ed urbanistica, entrando in gioco fattori fluttuanti di ordine sia pratico che estetico, valutazioni personali, culturali e storiche determinanti una varietà di atteggiamenti soggettivi nei confronti della decisione finale.
In tutte questa considerazioni, un parametro risalta con determinante influenza ed è il tempo, una delle dimensioni dell'universo in cui viviamo: l’archeologia si occupa del tempo trascorso, l’architettura del tempo presente e, con qualche presunzione, futuro, l’archeologia è architettura separata dal sistema storico-temporale sociale, tecnico, culturale, climatico, geografico, paesaggistico che ne ha determinato la nascita, la morte e la successiva musealizzazione, l’architettura è espressione del modello socio-culturale che la determina, che ne ha bisogno, che la usa nel tempo reale della sua esecuzione e per il quale il tempo rappresenta la componente fenomenologica.
E se la coscienza della storia passa attraverso il senso del tempo, la percezione del suo scorrere, la traccia della sua azione sulla materia, allora l’unica regola inderogabile ed anche realisticamente percorribile tutte le volte che si parla di restauro sembra essere quella che impone la riconoscibilità certa ed evidente degli interventi restaurativi succedutisi nel tempo, conciliando la conservazione formale del bene con la trascrizione delle vicende attraverso le quali esso è passato, mantenendo così la testimonianza storica delle cose e dei fatti.
Né filologismo esasperato né modernismo ad ogni costo, né Viollet-le-Duc che afferma “restaurare un edificio non è affatto mantenerlo, ripararlo o rifarlo, è ristabilirlo in uno stato completo che può non essere mai esistito in nessun momento” né Zevi che sostiene che l´intervento di recupero dell’antico debba essere non solo visibile, ma anche intenzionalmente dissonante: due posizioni estreme fino al paradosso dove si imporrebbe invece la ricerca di una soluzione unica e diversa per ogni singolo caso, senza posizioni preconcette che radicalizzino la sterile distriba tra antichisti e modernisti.
La partita si gioca tra un tempo fermato, quello che Marc Augé chiama “tempo puro”, quello dell’archeologia, e un tempo, quello del restauro, resuscitato e riattualizzato grazie al “concetto artistico” insito nell’opera architettonica percepita come esperienza estetica e non come risultato di semplice costruttività: la chiave di lettura ce la fornisce ancora una volta l’arte, il concetto artistico, ci insegna Cesare Brandi, esiste in un eterno presente continuamente ritrovato e rinnovato, in arte come in architettura. Non risiede nel progetto, che senza la materia che lo realizzi resta un puro esercizio grafico, né nella materia, strumento inerte se non asservito a trasmettere un concetto architettonico, ma nel sottile rimando che li lega e che è compito del restauro disseppellire dalla polvere del passato, ripristinando il misterioso linguaggio attraverso il quale la materia dialoga con l’idea. |