Ordinaria e banale, elegante ed audace nella proposizione di forme abituali o sorprendenti, semplicemente adatta ad un uso o inutilmente stupefacente, l’architettura ha sempre avuto diritto di cittadinanza nel mondo del bello, dell’estetico, dell’artistico, anche se talvolta trattata come un ospite precario, vagamente impuro, tollerato e tenuto a distanza. Il problema è sempre stato nell’aria, ma è sempre stato affrontato e risolto dando per scontato che, nel mondo dell’arte, l’architettura, per la sua stessa natura, è costretta a rivestire un ruolo subordinato.
Per la verità, in passato, seppure entro i condizionamenti del ‘dià-logos’ e della dicotomia platonica tra un’essenza ontologica ed un divenire fenomenico, non si è mai negato all’architettura la possibilità ed il compito di esprimere un’idea entro la forma più ‘bella’ possibile (gli architetti degli antichi templi greci erano anche straordinari scultori come Fidia), con una sostanziale identificazione delle figure del technités e dei poietés. Grazie ad una frammistione anche linguistica, architettura, scultura, pittura, letteratura, spettacolo ed in genere tutte le manifestazioni in qualche modo ritenute artistiche vennero raggruppate nella grande famiglia delle technai eleutherioi, senza preoccuparsi troppo di individuare per ognuna attribuzioni e ambiti specifici.
Sarebbe infatti impensabile voler separare nel Partenone la struttura architettonica dai fregi che la percorrono, né alcun studioso moderno si sognerebbe di qualificarne l’architettura come funzionale o artistica, essendo i due aspetti inscindibili. Non c’era, insomma, in passato, alcun pregiudizio verso un’architettura che volesse/potesse essere ‘artistica’ secondo un concetto olistico dell’attività creativa umana.
Concetto divenuto sempre più complesso ed articolato nell’evoluzione storica dell’umanità, passando per Vitruvio, per il quale l’architettura è l’arte di costruire, ed espandendosi nel pensiero di tutta la cultura occidentale.
Il modello razionalista dell’Illuminismo settecentesco determina, secondo Kant, sulla base di una primigenia idea di àisthesis, l’approccio ad un’architettura basata sulle forme pure di spazio e tempo ma condizionata dalla necessità di “adeguatezza a un certo uso”.
Quella che per Kant è una limitazione, per Schelling fa dell’architettura la rappresentazione dell’atto costruttivo in forma di metafora della sua stessa costruzione ed è, romanticamente, “musica nello spazio” , “libera e indipendente”.
Per Hegel l’architettura è destinata a rimanere un’arte imperfetta per la sua intrinseca incapacità ed impossibilità a manifestare “la pura trasparenza spirituale della materia”.
Per Heidegger, per il quale, con geniale rovesciamento dei termini, l'abitare precede il costruire ,"è il poetare che, in primissimo luogo, rende l'abitare un abitare. Poetare è l'autentico far abitare” entro un’architettura intesa come poiésis, come fare artistico.
Per Wittgenstein che si chiede, a proposito del suo progetto per la casa della sorella Margaret, che cosa ci vorrebbe per caratterizzarlo come “grande arte”, è implicito cercare di attribuire al proprio lavoro la necessità ed inevitabilità di un contenuto artistico.
Questa breve, disordinata, sommaria incursione vuole sottolineare come, da sempre, in misura e modi diversi per ogni epoca ed ogni pensatore, l’architettura rappresenti un prodotto della creatività umana leggibile su due livelli, uno tecnico e uno artistico, due aspetti di uno stesso fenomeno che, inspiegabilmente, solo oggi in tutto il corso della storia, rappresentano un tabù l’uno per l’altro.
Non è diversamente spiegabile la radicalizzazione di due posizioni antagoniste su una domanda apparentemente pacifica e vagamente pleonastica: “l’architettura può/deve essere arte?”
Su questo semplice interrogativo si fonda oggi una lunga serie di cervellotiche contrapposizioni: arte o architettura, tradizione o modernità, forma o funzione, tecnologia o umanesimo, anche se ognuno di questi binomi potrebbe leggersi sostituendo la ‘o’ con una ‘e’ senza che il dibattito sullo stato dell’architettura moderna ne possa venire denaturato o indebolito.
Quando, come e perché è avvenuta la dichiarazione di guerra?
Arte e architettura sono due termini in continuo aggiornamento di senso, mutevoli sia nel rapporto reciproco sia, ciascuno per suo conto, nella propria intrinseca significatività e per questo in precario equilibrio di rapporti.
La destabilizzazione più dirompente di questo rapporto avviene all’inizio del ‘900, quando le teorie di Walter Benjamin sull’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica destituiscono di valore i tradizionali caratteri di unicità e autenticità dell’opera stessa, che diviene un bene di consumo di massa, riproducibile tecnicamente infinite volte in modo identico all’originale, senza scadimento della qualità e a costi drasticamente inferiori.
Mentre l’arte perde in un attimo tutto un glorioso passato e vede andare in frantumi parametri tradizionali consolidati, l’architettura assume un ruolo di primo piano perché assorbe positivamente la rivoluzione tecnologica facendone occasione di cambiamento ed innovazione. Ciò che fino ad allora era considerato un punto debole dell’architettura, quella che Benjamin chiama “percezione distratta”, diventa un punto di forza, non il contrario di una percezione contemplativa, ma un modo peculiare che ha l’architettura nel richiedere l’attenzione dell’uomo. E’ a questo punto che Benjamin, molto modernamente, introduce il concetto di contesto architettonico come tempo e spazio dell’architettura.
Strumentalizzando la crisi di identità che l’avvento della fotografia induce nell’arte visiva, l’architettura vede rafforzata la sua doppia natura di arte e scienza, divenendo la sua dimensione tecnica un insperato punto di forza .
Infatti, mentre i progressi tecnologici non cambiano i tradizionali mezzi esecutivi dell’arte visiva (i pittori continueranno ad usare pennello e matita, gli scultori a scolpire la pietra o a modellare nel bronzo), ma minano alla base la componente contenutistica dell’opera, che non potrà più avere come obiettivo la rappresentazione mimetica della realtà, per ciò che riguarda l’architettura invece le nuove tecnologie non fanno che allargare le possibilità espressive della materia, che grazie alla tecnologia può piegarsi alle esigenze più impensate, soggettive ed eventualmente ‘artistiche’ dell’autore.
E’ un’occasione che l’architettura non si lascia scappare: ferro, vetro, acciaio, ceramica, malte e leganti concorrono all’invenzione di nuove tipologie, di edifici di altezza e luci inimmaginabili di audace leggerezza in dialogo con l’ambiente, dove la tecnica si pone in diretto rapporto con un nuovo concetto di bellezza architettonica.
Una situazione che ha tuttavia anche i suoi risvolti negativi, poiché, secondo un giudizio limitativo ma diffuso, si finisce per identificare le innovazioni linguistiche della forma architettonica in quelle tecnologiche dei materiali della costruzione, per una lettura dell'architettura moderna eminentemente
tecnica.
In realtà, mentre l’arte diviene ostaggio della tecnica, l’architettura ne diventa padrona, un privilegio oggi fermamente rivendicato che, aprendo sempre nuove vie alla creatività, le dà la possibilità di essere, come l’arte, involontaria, casuale, inconsapevole, incidentale e sempre “libera e indipendente”.
Di fatto, oggi, confini e steccati interdisciplinari stanno cadendo uno ad uno e architettura, arte, scienza, filosofia, sociologia, psicologia stanno ibridandosi in linguaggi che scivolano da un medium all’altro in modo “liquido” o addirittura “gassoso”.
Perciò proporrei di smetterla di parlare di arte e architettura, parliamo di artisti e di architetti, anzi parliamo di uomini, ci sono sempre loro dietro due semplici nomi comuni di cosa, astratti, femminili, singolari, che senza di loro neanche esisterebbero.
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