In un libro del 1976 che ha suscitato nel mondo scientifico un certo subbuglio, "Il gene egoista”, Richard Dawkins sostiene, in termini biologico-genetistici, l’esistenza di una evoluzione culturale della specie che va di pari passo con l’evoluzione genetica e che, come questa, seleziona e porta avanti le caratteristiche più utili alla sua sopravvivenza, avendo in comune queste due forme evolutive parallele la capacità di attuarsi attraverso gli individui, anche se con modalità differenti.
Responsabile dell’evoluzione culturale sarebbe il meme (dal greco mimésis, imitazione), entità di informazione relativa alla cultura umana replicabile da una mente ad un’altra così come il gene lo è da un individuo biologico ad un altro. La somiglianza fisica tra individui e generazioni è determinata dal gene attraverso la copiatura del DNA, l’eredità culturale è attuata dal meme con la copiatura dei comportamenti e così come la selezione genetica favorisce la sopravvivenza dell’individuo biologicamente più adatto all’ambiente, così la selezione memetica privilegia i portatori di idee in grado di ottimizzare le possibilità di sopravvivenza della generazione che le ha ricevute e che a sua volta potrà trasmetterle.
Secondo Dawkins, sia per il gene che per il meme l'unico scopo è di sopravvivere e replicarsi il più possibile, i memi, che utilizzano un meccanismo più sofisticato di quello dei geni, si propagano per imitazione in presenza di individui abbastanza sviluppati da saper discernere gli elementi fondamentali comportamentali da copiare capendone i potenziali vantaggi e comprendendo cosa copiare e a che fine.
Sull'argomento, Richard Brodie ("Virus of the Mind: The New Science of the Meme", 2009) afferma che "il meme è un'unità di informazione in una mente, la cui esistenza influenza eventi tali che più copie di esse vengono create in altre menti", in altre parole un frammento di informazione che può traslocare da una mente ad un’altra e determinare comportamenti replicanti.
La tecnologia fornisce un’ampia esemplificazione di memi, per esempio l’assemblaggio di due assi di legno con chiodo e martello, in tutte le culture tramandato come il modo più efficace, la costruzione degli utensili, le religioni, i proverbi, le superstizioni, le abitudini alimentari ecc.
Questa teoria, applicabile ad un numero infinito di campi d’azione compresa l’architettura, è da molti vivacemente contestata, come fa Nikos Salingaros (“The God Delusion”, 2006) che nella fattispecie la applica alla critica del decostruttivismo, attribuendo al meme il potere di diffondere messaggi fuorvianti.
Tuttavia va sottolineato che Dawkins non assegna alcun valore di merito al meme, il quale, alla pari del gene, non è né buono né cattivo, è utile, per lo meno in un determinato frangente temporale, alla persistenza ottimale della specie nell’ambiente trasmettendosi da individuo a individuo per periodi più o meno lunghi in funzione della sua utilità: la durata distingue i memi forti (o dominanti) da quelli deboli (o recessivi).
Verrebbe quindi da dire che il meme ha in sé le sue ragioni di esistere e diffondersi legate a condizioni contingenti, tenendo presente che non è detto che debba necessariamente migliorare in senso assoluto i comportamenti della specie.
Pacificando due opposti, il meme dà contemporaneamente giustificazione sia del persistere di una tradizione culturale intesa come memoria ereditaria di comportamenti passati, sia del sovrapporsi di nuove memorie trasmissibili e replicabili.
Esiste, dice Dawkins, un’evoluzione memetica che si attua, come quella genetica, attraverso mutazioni in grado di produrre nuove varianti delle quali solo alcune, quelle utili, verranno consolidate e trasmesse, oggi in tempi brevissimi grazie a supporti tecnologici quali computer, telefonia cellulare, televisione.
E “mentre le novità genetiche, cioè le mutazioni sono casuali, quelle culturali sono dirette a scopi precisi, di solito benéfici. L' evoluzione biologica ha quindi perduto molta importanza nella nostra specie, perché quella culturale soddisfa le nostre necessità assai più presto.” (Luigi Luca Cavalli Sforza), come dire che, di questi tempi, può più il meme del gene.
Alla luce di ciò, mi sembra contradditorio, come fa Salingaros, utilizzare il modello di Dawkins della diffusione “virale” del pensiero ed accusarlo di diffondere una sorta di anticorpo negativo contro il pensiero logico e la razionalità, perché se si accetta il concetto di meme si deve anche accettare che esso agisca né pro né contro alcuna idea preconcetta, ma solo nell’ottica dell’utilità e del bene, quand’anche temporanei, di tutta la specie. Il che lo renderebbe non criticabile, al di sopra di ogni giudizio.
Che c’entra tutto ciò con l’architettura?
C’entra, perché l’architettura è piena di memi (certe soluzioni planimetriche, architettoniche e urbanistiche come la piazza, o stilistiche come la guglia o il timpano triangolare, gli ordini ecc.) che, largamente replicati, permettono lo sviluppo di un’architettura spontanea talvolta migliore di quella ‘colta’, dove peraltro ci troviamo spesso davanti a progetti assai simili in cui pare sia intervenuto, al di là della volontà del progettista e quasi a sua insaputa, un processo memetico di copiatura.
Il carattere “virale” del meme spiegherebbe anche perché il contagio è favorito da determinate condizioni di prossimità, come si verificano in comunità con stretti rapporti culturali e in ambienti con forti connotazioni di appartenenza, riconoscendo al meme una sorta di cittadinanza localizzata.
Tutto ciò mi è venuto in mente guardando il progetto del Museo d’arte contemporanea a firma di Daniel Libeskind che sorgerà nell’enclave milanese di City Life entro il 2013, come ci ha assicurato a suo tempo l’ex sindaco Letizia Moratti.
Già finanziato con ben 45 milioni di euro pubblici, già sotto osservazione per complicazioni riguardanti i costi di gestione, già contestato da alcuni rappresentanti ufficiali quali il dimissionario assessore alla cultura Stefano Boeri, questo tempio della cultura moderna “dalla caratteristica forma ritorta" (confidenzialmente ribattezzato dagli amici del bar “il bidet”) si impone per la sua prepotente sovra-regionalità, sovra-nazionalità, sovra-culturalità.
Sicuramente Libeskind ha frugato, più o meno consapevolmente, nel suo patrimonio memetico, forse dimenticandosi che non stava costruendo casa sua, ma un museo a Milano, Lombardia, Italia, dove una tradizione culturale antica ruota attorno ad una serie di memi architettonici dominanti, ‘archi-memi’ (il neologismo è di Luca Silenzi) facilmente riconoscibili semplicemente girellando per la città. Cosa che i milanesi fanno da secoli, accumulando un patrimonio di 'engrammi', per usare il termine inventato da Richard Semon, di tracce mnesiche codificate permanentemente (e neurologicamente) nella memoria collettiva.
Faranno fatica a metterle d’accordo con il bidet gigante di Libeskind, che tuttavia, se avrà forza sufficiente, magari diventerà un nuovo meme ….
Speriamo di no!
link:
L'evoluzione delle idee: il concetto di meme
Spaesaggi del terzo millennio
Decostruttivismo: a chi deve parlare e a chi no
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