E'
infatti reale il rischio che l'alta tecnologia possa diventare un alibi per una
sorta di astensionismo morale ed è legittimo il dubbio che un po' di ebbrezza
tecnologica sia alla base della guglia alta mezzo chilometro di Ground Zero o
delle disinibite sperimentazioni progettuali del Guggenheim Museum di Bilbao o della Disney Hall di L.A.
Lo storico
ed il critico d'architettura usano, oggi più che mai davanti a tendenze
non catalogabili ed in genere rapportabili ad una realtà strettamente individuale,
l'aggettivo 'espressionista', parlando di 'architettura espressionista', così
come si parla di arte espressionista o letteratura espressionista, per indicare
un prodotto fortemente marchiato dalla soggettività dell'autore, come ad
esempio il decostruttivismo.
Etimologicamente derivato dal latino ex-premere,
spingere fuori, il termine espressionismo viene coniato dal critico francese Vauxcelles
che lo adopera per definire la pittura di Matisse, fauve come Derain, de Vlamink,
Van Dongen, e viene poi esteso ad esperienze in ambito tedesco, delle quali illustri
prodromi sono costituiti dalla pittura di Edward Munch e Vincent van Gogh. 'Espressionismo',
termine creato in un inizio secolo particolarmente critico ed oppositivo nei confronti
del passato, diviene nell'uso corrente sinonimo di antiaccademismo ed antitradizionalismo
e definisce una vera e propria rivoluzione ideologica attuata dalle correnti avanguardiste
del '900. Va tuttavia ricordato che esso identifica, prima di tutto, il momento
storico di un passo obbligato per un'arte visiva che, di colpo, dopo secoli di
più o meno indiscussa egemonia, si vede privata del proprio ruolo consolidato
- la raffigurazione e la riproduzione di immagini reali - dalla giovane tecnica
fotografica, alla quale pare più idoneo e più economico delegare
il compito della rappresentazione documentale della realtà oggettiva, pur
con tutte le riserve che questi due termini, documentale e oggettiva, comportano.
Davanti
a questo ribaltamento d'orizzonte, l'arte visiva affronta una crisi di identità
senza precedenti e cerca nuove motivazioni che le conferiscano un ruolo, trovandole
nella rappresentazione dell'inconscio, della realtà metafisica, dell'interiorità
delle cose, ciò che la fotografia non può riprodurre e che l'obiettivo
non 'vede' .
Sarà l'arte capace di scavare nell'animo umano, di ex-sprimere
le emozioni, ex-strarle e spingerle fuori, liberarle, riversarle sulla tela con
l'irruenza di un fiume in piena, senza più preoccupazioni di naturalismo,
mimesi, verosimiglianza, sarà l'Espressionismo.
Con l'aiuto di Freud
il '900 scopre poi che l'espressionismo è una categoria dello spirito,
ed è perciò lecito ed inevitabile rintracciarlo e giustificarlo
in ogni manifestazione dell'umano intelletto, anche nell'architettura e anche
se essa non vive quel passaggio epocale con la stessa drammaticità dell'arte,
poiché nulla e nessuno mette in dubbio né disconosce il suo ruolo di strumento egemone
per occupare ed abitare il territorio, di strumento sociale di necessità
storica.
Rifiutando quindi di trincerarsi entro una sterile autonomia disciplinare,
l'architettura partecipa al movimento espressionista seppure con una certa confusione,
alcune incertezze ed un costante rapporto conflittuale con l'altra, opposta faccia
della cultura del '900 rappresentata dal Costruttivismo e dal Razionalismo.
Un
dualismo che, in definitiva, riguarda anche l'architettura di oggi, uscita non
da molto dalle secche di un vituperato post-razionalismo esitato nel contestatissimo
post-moderno che ne ha, secondo i più, in qualche modo frenato l'evoluzione. Senza riuscirci, pare, se "la forza con cui si pone l'architettura contemporanea
- penso a Libeskind, a Gerhy in particolare - e l'estrema drammaticità
nella quale trova rappresentazione ci danno la certezza che la sensibilità
per una visione organica dell'esperienza, del vivere espressivo, hanno ora vinto
una battaglia secolare contro la disciplina della forma e quindi della sostanza,
contro l'intransigenza della semplificazione e della coerenza storica."
(Sandro Lazier, "L'artista non vede, guarda", Antithesi, 2002).
Tuttavia
vale la pena di rilevare che arte visiva e architettura si differenziano sensibilmente
non nel merito, ma nel metodo per ciò che concerne la loro fruizione: nonostante
mai come oggi esse cerchino di ricomporsi osmoticamente sconfinando l'una nell'altra
nel nome di una interdisciplinarità che pare essere la parola d'ordine
della cultura moderna, resta il fatto che la fruizione della maggior parte delle
opere d'arte o almeno, dando a Benjamin quel che è di Benjamin, del loro
esemplare autentico, unico ed originale, impone un devoto pellegrinaggio in luoghi
deputati ad ospitarle, ad Amsterdam piuttosto che a Oslo, a New York o a Parigi,
nei quali, grazie al medium del museo o della galleria, instaurare un dialogo
protetto personale e riservato tra l'opera ed il suo osservatore. Lì
l'espressionismo davvero 'urla' ed apre allo spettatore lo specchio di un'interiorità
sofferta nella quale ciascuno può, a suo modo, riflettere sé stesso.
L'architettura
no, l'architettura ti viene incontro e ti circonda senza chiederti il permesso
e senza che tu debba andare a cercarla, pervade la tua vita, costruisce il presente
e il passato della tua storia, il mondo in cui vivi e abiti, ed ogni volta che
un architetto realizza un'opera invade lo spazio di tutti, il nostro spazio fisico
e mentale, il nostro orizzonte, lo skyline delle nostre città, modifica
il paesaggio, altera luci ed ombre, interviene sul microclima, devia percorsi
ci cambia la vita, almeno un po', senza il nostro consenso e nostro
malgrado.
L'architettura, insomma, non può che riguardare tutti, dato che
ogni opera, quand'anche a destinazione strettamente personale, concorre a creare
o modificare un mondo di forme e di volumi in un contesto urbanistico-ambientale
entro il quale tutta la comunità vive ed agisce. L'architettura 'serve',
l'uomo non può vivere senza fare ed usare l'architettura, uno dei modi
più antichi attraverso i quali egli plasma e trasforma la materia per asservirla
ai propri scopi, cosicché la pervasività, l'invadenza, l'occupazione,
la visibilità tracciano l'inevitabile destino di una disciplina che, districandosi
tra tecnologia e contenuti, costruisce il mondo visibile in forme - o stili -
continuamente mutanti in relazione al mutare delle funzioni, dei materiali, delle
tecnologie, del contesto, della storia, della società, della cultura.
Luigi
Prestinenza Puglisi attribuisce a Bruno Zevi la definizione di arte come "l'espressione
più alta della moralità. E la forma è il veicolo attraverso
il quale la moralità -che è ricerca della libertà- si manifesta"
("Pensieri scomodi", 2001). Il che non impedisce allo stesso Zevi di
somministrarci, lecorbusianamente, le sue sette invarianti che però, prosegue
Puglisi, lungi dall'essere regole o precetti, sono "modelli comportamentali,
strategie per la liberazione", senza mostrar di rilevare la contraddizione
ossimorica dell'affermazione.
E' scontato accettare il concetto di una
morale dell'arte su basi puramente estetiche, una 'morale estetica' che comunque
scaturisce da una riflessione sulla realtà non estranea all'utopia di poter
cambiare il mondo, ma che non ponendosi fini - qualcuno ha detto che fine dell'arte
è proprio non averne - agisce nella più completa libertà sia
di chi produce che di chi fruisce l'opera.
E' l'affermazione della reciproca e
totale soggettività percettiva, ciò che fa scrivere a Ernst Hans
Gombrich a proposito dell'opera d'arte: "Non sapremo mai che significato
potesse avere per il suo creatore, perché anche ammettendo che ce ne abbia
parlato può essere che in realtà fosse ignoto persino a lui. L'opera
d'arte significa dunque ciò che significa per noi, non c'è altro
criterio". In questi termini è possibile stabilire un rapporto
biunivoco tra moralità e libertà ed è possibile che il termine
'espressionismo' acquisisca un significato definito ed inequivocabile.
Ma,
in architettura, vale lo stesso principio? Quando un'architettura può dirsi libera
e quindi morale? Quando esprime senza alcuna censura il soggettivo sentire dell'architetto?
O quando rispetta e concilia le molteplici libertà individuali di quelli che con quell'architettura
ci dovranno convivere per decenni senza averla scelta, subendola, tollerandola,
magari trovandola sgradevole? Il discorso sulla libertà-moralità,
in questo caso, si intreccia inevitabilmente con la responsabilità dell'architetto
nei confronti non solo della propria committenza, ma dell'umanità intera,
specie in questo periodo storico in cui la progettazione coinvolge più
pesantemente che in passato la ricerca tecnico-scientifica, la gestione energetica,
la politica del territorio, e quindi indirettamente la qualità della vita
di tutti.
L'architetto - scrive Leon Battista Alberti, sottolineando
il valore sociale dell'architettura - "saprà con l'opera recare
a fine tutte quelle cose, le quali si possono con grande dignità accomodare
benissimo all'uso degli uomini": allora come oggi l'architettura è
'per gli uomini' e non di 'un uomo', è per questo che riflette il sistema
sociale dei popoli, è per questo che Lewis Mumford parla dell'architettura
come specchio della società e Giovanni Michelucci la vede come espressione
corale di una creatività collettiva "di cui l'architetto è
o deve essere interprete o, se grande architetto, anticipatore". La
difficoltà, oggi, consiste proprio nel distinguere tra chi, nel nome di
un espressionismo soggettivo ed autocelebrativo, conquista la notorietà
della cronaca e chi, facendo tacere tentazioni esibizionistiche, sa ascoltare
ed esprime lo spirito della storia.
* articolo aggiornato il 30/8/2013
link:
Architettura e consenso
Ethical Architecture
Che mondo sarebbe senza architettura?
Scolpire l'architettura
|