Non ho nulla contro le bocce di carta appallottolata, da bambini sono strumenti improvvisati per molti giochi divertenti, sono ecologiche, inoffensive, di facile reperibilità, di basso costo, riciclabili, non ho nulla neanche contro i rotoli di carta igienica, irrinunciabile conquista del ‘900, oggi anche idrosolubili e rispettosi dell’ambiente nonché, in alcune varianti, vezzosamente decorati. E nulla neanche contro la carta stagnola stropicciata dei cioccolatini, la pellicola in alluminio della domopack, gli imballi in cartone ondulato……..
Ciò che mi spiazza, e non sono l'unica (*), è che non ho mai sospettato che in quelle pallottole accartocciate o in quella stagnola maltrattata dovessi leggerci altrettanti simulatori volumetrici, modelli in scala di sontuosi edifici, progetti in fieri che accadono in modo imprevedibile grazie al gesto casuale di un architetto con un gran senso dell’umorismo che, giocando come un bambino un po’ discolo, le getta all’aria o magari le lancia ai giovani collaboratori di studio capaci di trasformarli in un museo, una chiesa, un palazzo, con effetto ‘pacco regalo’ o ‘deposito di zio Paperone’, per citare solo due delle possibili varianti (Paolo Marzano su antithesi e su BUILDLAB.COM).
Un gioco di prestigio? Una specie di scommessa? Più realisticamente il creativo utilizzo di un software della Dassault Systemes, Catia, adattato poi in Catia Digital Project, creato in origine per l'industria tecnica ingegneristica operante nei settori automobilistici e aerospaziali per costruire i Mirage e poi anche aerei civili nonché molti veicoli prodotti da BMW, Porsche, Daimler Chrysler, Audi, Volkswagen, Volvo, Fiat, ecc.
La critica di partenza che più comunemente va ad architetture ‘a forma libera’ così progettate è un consumo molto più incisivo del normale per ciò che riguarda il materiale portante, in parole povere un iniziale inevitabile maggior costo delle strutture, oltre che una compromissione di base della loro funzionalità, se diamo la dovuta importanza al fatto che non devono volare né andare in autostrada.
Ma non ho niente neanche contro l’uso creativo in edilizia di un software per carpenteria metallica, l’unico appunto che mi pare lecito fare è che forse per la loro mancanza di background, queste linee di pensiero alternative producono una pluralità di risultati che sfugge ad ogni lettura unitaria, una quantità sterminata di singolarità disseminate a pioggia sull’intero pianeta nel nome di una globalità di pensiero presentata come ultima, esaltante conquista dell’umanità.
Un ossimoro che interessa da vicino questa architettura casuale è “serialità dell’unicità”, perché pur essendo le opere esemplari unici, certificatamente autentici, esse in realtà non rispondono a nessuna specifica domanda di tipo funzionale/culturale, ciò che presupporrebbe per ogni caso soluzioni mirate e quindi uniche, mentre sono invece in grado di generare una grande varietà di risposte formali generiche, polivalenti, indiscriminate, tipicamente seriali.
Che però il gioco mostri la corda, che la voglia delle archistar di piacere a tutti si sia rivelata ormai un obiettivo che riesce a scontentare tutti appare sempre più evidente, specie a chi non teme il cambiamento, non teme di contraddirsi, sapendo che “solo gli stupidi non cambiano mai opinione.”
Rem Koolhaas, curatore della prossima Biennale di Venezia, dichiara “Fundamentals sarà una Biennale sull'architettura, non sugli architetti. ……. Fundamentals si concentrerà sulla storia - sugli inevitabili elementi di tutta l'architettura utilizzati da ogni architetto, in ogni tempo e in ogni luogo (la porta, il pavimento, il soffitto, etc.) e sull'evoluzione delle architetture nazionali negli ultimi 100 anni………. le mostre che si svolgeranno ……..daranno luogo a una panoramica globale dell'evoluzione dell'architettura verso un'unica estetica moderna e, allo stesso tempo, sveleranno all’interno della globalizzazione la sopravvivenza di caratteristiche e mentalità nazionali uniche che continuano a esistere e fiorire all’interno delle culture individuali, anche con l’intensificarsi della collaborazione e dello scambio internazionali”.
Ancora più esplicita l’ultima opera di Zygmunt Bauman, (Communitas. Uguali e diversi nella società liquida) che ruota attorno al bisogno di aggregazione basata su fondamenti comuni, per quanto complicati e condizionati dalla necessità di integrazione ed alla formulazione di un nuovo concetto di comunità che rivede in chiave moderna l’idea di appartenenza.
Perché "Il fatto che la comunità sia sempre presente ci fa sentire sicuri. Non è qualcosa di fluido, di liquido. Non ci abbandona mai; ogniqualvolta abbiamo bisogno di fare riferimento al luogo a cui apparteniamo, essa è sempre lì ad aspettarci e questo ci dà conforto". Un'idea di comunità (il titolo in latino è significativo) molto vicina a quella di identità, una comunità glocal che si riappropria del suo ruolo civico ed esplora le "cose che abbiamo in comune".
In realtà, osserva Bauman, “la situazione è questa: le città contemporanee sono una sorta di bidoni della spazzatura, dentro i quali i poteri globali lasciano cadere i problemi affinché vengano risolti” e ci presenta la fotografia agghiacciante di una società che non ha più il coraggio o la capacità di scegliere, dove globalizzazione non significa costruzione di un mondo diverso, ma solo abbandono di un mondo esistente, dove i problemi non vengono risolti, ma lasciati cadere nella speranza di una spontanea ed improbabile autorisoluzione, dove, rientrando nel tema, un’architettura qualunquista abdica al suo ruolo etico, soddisfatto solo da mirate soluzioni singolari, nel nome di un generalismo anonimo che pretende di soddisfare una pluralità indifferenziata, interlocutore inesistente per risposte senza verifiche.
Il fatto che ci sia chi si accorge di tutto ciò ed abbia la lucidità e l'onestà di dirlo fa presagire l’emergere della consapevolezza che la globalizzazione non è un processo di omogeneizzazione culturale della post-modernità, ma la presa di coscienza delle sue contraddizioni.
Senza dare per scontato che non ci sia altro modo per risolverle se non con l'appiattimento delle diversità.
(*) "Lei si riferisce a Frank Gehry che, nel film a lui dedicato da Sidney Pollack, entra nello studio, appallottola un foglio di carta e dice ai suoi: "Voglio questo"?"
(da 'Archistar? No, grazie', domanda posta a Franco La Cecla)
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