Il titolo non vuol essere una chiamata alla ribalta, ma, al contrario, l’espulsione dal palcoscenico di uno degli stereotipi più ingombranti della storia della cultura. Ribaltando il paradigma pirandelliano, l’opera (d’arte) non ha alcun bisogno di essere legittimata da un autore, pur in mancanza di 'autorialità' essa possiede una 'autorevolezza' autonoma che le permette di relazionarsi direttamente e liberamente con il fruitore: perché l’opera non va spiegata, ma interpretata, non bisogna ricercarvi le intenzioni dell’autore, ma i significati che contiene e che ci trasmette indipendentemente da esse.
E’ questa la moderna chiave di lettura che riduce lo spazio dell’autore a beneficio della facoltà interpretativa del fruitore, liberandolo dall’obbligo di cercare/trovare significati precostituiti e perciò condizionanti.
Infatti, per quanto rassicurante possa essere la certezza dell’esistenza di un padre, in realtà la sua presenza spinge a percorsi cognitivi e percettivi entro binari prestabiliti e limitanti, sia che si tratti di un padre biologico quale è l’autore, sia degli svariati padri putativi, il critico, il mecenate, il mercante ecc.
Da secoli siamo stati abituati a ritenere che l’attribuzione di ‘opera d’arte’ discendesse dall’intenzionalità della sua genesi, dalla possibilità di individuare e ricondurre la creazione di un’opera ad un determinato autore per poter disporre degli elementi necessari a consentirci di coglierne il significato, a ritenere che debba esserci qualcuno che, prefiggendosi un fine, se ne assuma la paternità e la responsabilità ed in qualche modo avvalli, grazie alla propria fama o alle proprie riconosciute capacità creative, l’essere quella ‘cosa’ una ’opera d’arte’ o, appunto, una ‘opera d’autore’.
In realtà non c’è nesso logico tra le due definizioni, se è vero che ogni opera ha un autore, non è automaticamente vero che basti la presenza di un autore perché un’opera sia ‘d’arte’, la volontà di collegare l’opera al suo autore indica prevalentemente una necessità di soggettivazione tipica della cultura umanistica occidentale, nella quale l’autore è una figura culturale simbolica attraverso la quale dare un ordine alla storia umana ed incarnarne i tratti salienti.
L’autorialità è quindi una forma di riconoscimento privilegiato nei confronti di qualcuno, attribuitogli per una capacità individuale a produrre cose nuove, significative ed uniche .
Si è così consolidata nel tempo la figura dell’autore-protagonista, unitamente alla curiosità per il biografismo, l’interesse morboso nei confronti della sua vita privata di persona autonoma rispetto alla sua stessa opera.
Fino a che Duchamp si inventa che l’opera può essere di padre ignoto e nonostante ciò essere ugualmente ‘d’arte’, attribuzione che, con inedito scambio di ruoli, non viene assegnata dall’autore, ma dal fruitore che sceglie autonomamente l’interpretazione e crea l’opera a misura di sé.
Il ready-made cristallizza queste premesse, l’orinatoio o la ruota di bicicletta non sono stati creati da Duchamp, sono oggetti reali, anestetici, seriali, utilitaristicamente concepiti, non sono simulacri, ma oggetti veri e propri che la mente già conosce come tali e che, tuttavia, per una serie di operazioni guidate e/o spontanee, è in grado di leggere in modo inedito e anticonformista diventandone, in qualche modo, autore ed occupando il vuoto lasciato dall’artista.
Il Post-moderno del seguente ‘900 guarda con ironia alle ambiziose aspirazioni dell’autorialità e le dissacra nel citazionismo, nella rivisitazione, nel remix, nel disordine temporale della narrazione non lineare, frammentando, ibridando, destabilizzando.
L’autore post-moderno è libero di muoversi in qualsiasi epoca o stile del passato, assumendo a piacere riferimenti di altri autori fino al proprio annullamento e alla identificazione, per una produzione artistica relazionale e partecipativa ad alta inclusione sociale e culturale, scegliendo di recuperare il senso della continuità e della memoria storica, rinunciando alla ricerca del nuovo ad ogni costo, all’obbligo dell’invenzione, agli eccessi delle sperimentazioni avanguardiste.
Carlo Maria Mariani, che afferma: "Io non sono un pittore, io non sono l'artista, io sono l'opera", in un’intervista rilasciata a Vittorio Tondelli nel febbraio 2013 così spiega il senso di questa sua frase: “Sì… Io sono il quadro stesso. Ci riportiamo qui agli inizi, quando mi sostituivo a un artista del passato per completarne un’opera che era rimasta incompiuta oppure non era, addirittura, mai stata eseguita. È il caso della mia testa dell’Arcangelo San Michele di Guido Reni. [……] provo, appunto, a rifare questa testa sublimandolo […....]. Ho fatto l’impossibile. In questo caso, sono il quadro stesso. Mariani non esisteva”: si intravvede in ciò il concetto di co-autorialità o di autorialità plurima, l’arte si fa colta ed allusiva, sperimentando nuovi modi meta-autoriali di raccontarsi con autoironia e forse con un pizzico di nostalgia.
Ciò che non fa l’architettura, uno degli ultimi ambiti in cui l'autorialità sembra costituire un indiscusso baluardo da difendere, la quale pure, come l’arte, passa per una fase post-moderna che viene liquidata dalla critica come una pausa di riflessione priva di profondità di analisi: Bruno Zevi dichiara infatti in un inedito dell'82, "E' così poco il post-modern che, nell'edizione parigina della mostra "La presenza della storia", lo hanno eliminato[……] è un fenomeno effimero. Per questo non voglio dargli troppa importanza."
Imprevedibilmente, nell’architettura degli ultimi decenni compare e si afferma la figura dell’archistar, trionfo dell’autorialità più plateale e prepotente, della tirannia del genio solitario convinto che l'architettura debba essere prima di tutto una proiezione di sé e delle proprie intenzionalità autoriali.
Eppure, in architettura c’è stato un tempo in cui l’autore era per forza di cose del tutto sconosciuto, quando la costruzione di una cattedrale durava secoli, infinito work in progress pronto ad accogliere i continui aggiornamenti, sia stilistici che tecnici, importati da solitari viaggiatori spintisi oltre i confini dei loro paesi, quando il romanico e il gotico articolavano un grande discorso corale di capitelli e guglie e solo qualche scalpellino di particolare talento incideva timidamente il proprio nome sul basamento di una statua. A questo ideale si ispira John Ruskin quando incita a ripercorrere le orme dell’organizzazione del lavoro medioevale, a questo pensa William Morris quando, ricordandosi proprio del gotico, fonda ‘Arts and Crafts’ sull’idealistico concetto della corporazione medioevale specchio di un sistema sociale coeso e collaborativo, riassuntivo delle capacità e delle esigenze collettive.
Oggi l’archistar rappresenta una antistorica anomalia, un fenomeno di prossima obsolescenza e la sua arrogante autorialità una sterile forma di narcisismo: come scrive Giovanni Leoni “la autorialità, in architettura, affaccia sull'abisso di una scomparsa possibile, si potrebbe dire ormai probabile e quasi visibile.“ ( “Vitalità dell'opera e tramonto dell'autore”)
Già 10 anni fa Ignazio Gardella in “Dialoghi di architettura” (2004) scriveva un brano,“L’Architettura della coralità”, in questi termini: “L’architettura di oggi, perciò non necessariamente quella dei templi o delle cattedrali, è e sempre maggiormente sarà un fatto corale [……] L’architetto oggi necessita di una varietà di variegati interventi che vanno dall’ingegnere al muratore, allo stesso modo in cui, sebbene con differenti interlocutori risultavano corali le costruzioni medievali.“
Scrive Étienne Gilson('La filosofia nel Medioevo', 1990):"E' dal Medioevo che escono le dottrine filosofiche e scientifiche sotto le quali si pretende di subissarlo": nulla va perduto nella storia dell'umanità, nulla di ciò che accade è bene o male, semplicemente accade.
Così come accade che il medioevo, così lontano e così discusso, possa ancora insegnarci qualcosa.
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