La foto, tratta dalla pagina instagram di Gianmarco Chieregato, fissa uno scorcio del panorama di Milano particolarmente significativo perché pone a confronto due strutture molto caratterizzate e riconoscibili nello skyline della città: la torre Velasca, noto progetto dello studio BBPR, e il Duomo, la cattedrale gotica sede, appunto, della ‘cattedra‘ del vescovo che guida la diocesi.
In realtà il dialogo a distanza tra i due, nel panorama sostanzialmente piatto e cromaticamente uniforme di una città poco propensa ai colpi d’ala, appare come un pacato confronto generazionale senza sfide, la Velasca si confronta piuttosto con la torre del Filarete riproponendone la massiccia, misurata elevazione a pianta quadrata appesantita dai colori caldi delle terre e delle argille locali, simile a tanti torrioni di tante città italiane, invece il Duomo, col suo scintillante zampillare di statue, guglie e doccioni in candido marmo di Candoglia, reclama senza modestia la sua posizione di elegante solista in una città segnata soprattutto dalla pesantezza del romanico o dalla composta sobrietà del rinascimento e del neoclassicismo.
Sulla guglia più alta della cattedrale si innalza quella che i milanesi chiamano affettuosamente ‘la Madonnina’, statua bronzea alta 4,16 metri del peso di quasi quattro tonnellate, collocata lassù a 108,5 metri di altezza nel 1774: da allora non ha fatto che consolidare il proprio significato di simbolo protettore in grado di proiettare la sua benefica ombra sulla città sottostante amplificando, anche per questa posizione di preminenza, la rappresentazione del potere ecclesiastico che gli edifici religiosi hanno sempre trasmesso.
Non solo a Milano, ma in tutta l’Italia il timore reverenziale (“metus reverentialis”) verso il sacro è sempre stato giustificato dal fatto che il papato ha sempre fatto pagare cara la superbia a chi ha voluto arrivare troppo in alto, come ben ricordano ancora oggi gli abitanti di Perugia, arresasi nel 1540 al feroce papa Paolo III Farnese che, una volta impossessatosi della città, fece demolire più di 80 torri appartenenti alle famiglie nobili più potenti appiattendo senza pietà e per sempre il panorama cittadino.
Quindi, un po’ per timore, un po’ per tradizione, un po’ per l’esistenza di una vecchia legge del periodo fascista nella quale Mussolini sanciva che “il profano non prevarichi mai il sacro”, a Milano nessun edificio poteva superare la quota della statua della Madonnina, tanto che la torre Velasca, risalente al 1956, si ferma rispettosamente a quota 106 metri.
Quando, nel 1960, viene edificato, su progetto di Gio’ Ponti, il grattacielo Pirelli che sopravanza di quasi 20 m. la quota della statua, il popolo di santi e di poeti (i navigatori a Milano scarseggiano) che vive a quota zero, forse non estranea, oltre alla fede, una preoccupazione tutta laica di tipo scaramantico, si preoccupa al punto che sulla sommità del Pirellone viene posta una copia della statua, stabilendo un ragionevole compromesso tra sacro e profano e cercando così di assicurare ancora a lungo alla città la benevolenza del cielo.
Una soluzione in linea con l’interventismo pragmatico dei padani che tanto soddisfa le autorità lombarde da reiterarla nel 2010 con lo spostamento della copia della Madonnina, divenuta itinerante, sulla sommità del Palazzo della Regione Lombardia (167 m), riconsacrando la statua come indiscusso “simbolo religioso e civile di Milano e della Lombardia”, a sentire Roberto Formigoni, all’epoca presidente della regione.
Dopo di che, il rapporto con la Madonnina si fa sempre più informale e disinvolto, specie da quando, con una ventata di internazionalismo e con l’intervento progettuale dell’immancabile archistar, alla sede regionale si aggiunge il grattacielo di Cesar Pelli sede di UniCredit, la più grande banca italiana, affiancando così i simboli dei due poteri forti della capitale morale d’Italia, la politica e l’anima finanziaria e commerciale.
Si sa che il potere ha sempre trovato forma e materia nell’architettura, in principio quella sacra, e anche negli architetti che si sono sempre dimostrati compiacenti strumenti nelle mani dei potenti di turno. Una scelta obbligata, poiché, come scrive Deyan Sudjic “In ogni cultura, per poter realizzare le proprie creazioni, gli architetti hanno dovuto stabilire un rapporto con i ricchi e i potenti. Nessun altro ha infatti le risorse per costruire. E il destino geneticamente predeterminato degli architetti è fare qualsiasi cosa pur di costruire, così come quello dei salmoni migratori è di compiere l'ultimo viaggio per deporre le uova prima di morire. (‘Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo’, 2011)
Quello di Pelli, al quale auguro lunga vita, è il grattacielo più alto d’Italia, raggiungendo ben 231 metri, o meglio, in realtà, il volume abitabile è alto 146 metri, l’aggiunta di altri 85 è dovuta al posizionamento, sulla sua sommità, dello 'Spire', una guglia rivestita in led che possono assumere varie colorazioni a seconda delle ricorrenze, nelle intenzioni progettuali una citazione della guglia maggiore del Duomo che sorregge proprio la Madonnina, nella realtà un sicuro effetto ‘albero di natale’ per il quale ognuno potrà inventarsi personali motivazioni che con la Madonnina non abbiano nulla a che fare.
E con questa rivisitazione laica di un simbolo sacro, in senso reale e figurato, per l’immaginario collettivo dei milanesi che perde la sua valenza iconica a favore di un escamotage decorativistico ad effetto luminaria, il sorpasso è compiuto: il verticalismo gotico così ben rappresentato nel Duomo, da sempre simbolo della tensione tra cielo e terra, tra dio e uomo, tra trascendente e terreno, dell’aspirazione ad un assoluto spirituale verso il quale l’architettura è in grado di guidarci, diventa espressione di due diversi poteri, quello finanziario e quello politico, che innalzano al dio denaro altari sempre più alti. Stati Uniti, Giappone, Cina, Arabia Saudita (attualmente in testa con la Kingdom Tower di Gedda alta 1000 metri) detengono record e primati destinati a superarsi rapidamente in una gara all’ultimo metro che sembra appena cominciata.
“Esiste un parallelo psicologico fra il marcare un territorio per mezzo di un edificio e l'esercizio del potere politico. Entrambe le cose dipendono da un atto di volontà. Vedere affermata la propria visione del mondo in un modello architettonico esercita di per sé un certo fascino [……] L'architettura alimenta l'ego nei soggetti predisposti. Essi ne diventano sempre più dipendenti al punto che l'architettura si trasforma in un fine in sé che attrae i fanatici e li induce a costruire sempre di più su di una scala sempre più vasta. Edificare diventa il mezzo con cui l'egotismo degli individui si esprime nella sua forma più pura, il 'complesso edilizio’." (idem)
Per Milano la competizione sembra persa in partenza a causa della deludente classifica che vede in concorso agli ultimi posti gli interventi di City Life, i tre grattacieli di altrettante archistar, il Dritto (Arata Isozaki, 207 m), lo Storto (Zaha Hadid, 170 m), il Curvo (Daniel Libeskind, 160 m).
In realtà, ciò si pone coerentemente in continuità con quanto è sempre accaduto in Lombardia, dove i nuovi linguaggi vengono letti criticamente, dove il gotico arrivato da oltralpe viene rielaborato sul precedente passato romanico di un’architettura frutto di una cultura severa, pragmatica e concreta, attaccata alla terra dalla quale la gente lombarda trae lavoro e sostentamento. Così il Duomo riassume gli stilemi gotici entro l’impaginazione romanica della facciata a capanna, mostrando già allora che la salvaguardia dell’identità di un popolo passa anche per una continuità culturale, storica ed iconografica con radici lontane attraverso la quale dare al mondo una forma in cui riconoscersi ed in cui rileggere il proprio passato.
Forse è questo il motivo per cui i grattacieli di Milano sono esitanti e timidi nel loro slancio verso il cielo, perché non fanno parte della cultura sia lombarda che italiana, e non perché vogliamo sottrarci alla sfida. Prova ne è che in Lombardia si trova il primo al mondo e all'epoca della costruzione il più alto dei grattacieli costruiti con la tecnica del calcestruzzo armato, il Pirelli, dove i calcoli strutturali sono opera di un gruppo di eccellenti professionisti quali Giuseppe Valtolina, Pier Luigi Nervi, Arturo Danusso, Piero Locatelli e Guglielmo Meardi: vera e propria prova di virtuosismo costruttivo, il Pirelli resterà nella storia dell’architettura quale che sia la quota che raggiungeranno in futuro i grattacieli in ferro del resto del pianeta, come simbolo di un’epoca, di una società e di una cultura che in quegli anni hanno fatto scuola nel mondo.
Stessa scelta avevano operato pochi anni prima i progettisti della torre Velasca, lo studio BBPR di Banfi, Belgioioso, Peressutti, Rogers, massiccia struttura brutalista dove il calcestruzzo viene preferito alla seppur meno costosa soluzione in ferro.
La scelta della forma a torre di ispirazione medioevale, dettata da una ragione affettiva, sfocia in esiti formali quasi neogotici o Neo Art Noveau, come dice Pevsner, nella ricerca di una continuità, scrive Ernesto Nathan Rogers, per la quale “la soluzione è nel vitale connubio tra le energie autoctone della tradizione spontanea, con gli apporti originali di quelle correnti che formano il patrimonio universale del pensiero” ('Continuità e crisi, Ernesto Nathan Rogers e la cultura architettonica')
Sempre Rogers e sempre sulla Velasca, nello stesso testo: “Il valore intenzionale di questa architettura è di riassumere culturalmente, e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l’atmosfera della città di Milano; l’ineffabile eppur percepibile caratteristica”. La forma architettonica quindi si determina “desumendola dalle determinanti dell’ambiente circostante e dalle ragioni distributive dell’organismo”.
Ludovico Barbiano di Belgioioso in un’intervista del 1982, così chiarisce: "la conquista della “cittadinanza” milanese da parte del nostro edificio è dovuta sia al suo profilo che, nato da ragioni non
stilistiche ma da interpretazione corretta dello spazio, ricorda le torri tradizionali, sia al linguaggio architettonico che durante il lungo processo di
elaborazione ha recuperato alcuni elementi fondamentali dell’architettura
milanese, quali la dimensione delle finestre, la misura degli aggetti, la
scabrosità dell’intonaco, l’uso dei materiali, la tonalità dei colori......”
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