Nel settembre del 1480 Bona di Savoia e Gian Galeazzo Sforza approvano lo statuto della Fabbrica di Santa Maria presso San Satiro, secondo quanto predisposto già dal 1477 dalla diocesi di Milano e di cui l’incarico progettuale viene poi conferito al giovane architetto urbinate Donato Bramante, giunto in città nel 1481. Al momento di aprire il cantiere, però, qualcosa non torna, mancano alcuni permessi e, cosa ben più grave, manca buona parte dello spazio sul quale edificare secondo il progetto elaborato, il terreno è più piccolo del previsto quindi o si rinuncia all’idea iniziale o si rifà di sana pianta il progetto oppure……..
E’ a questo punto che scatta la scintilla del genio.
Bramante ha imparato le regole della prospettiva da Piero della Francesca, ha avuto contatti con Leonardo da Vinci, ha conosciuto Andrea Mantegna, probabilmente già è disegnatore e pittore di architetture prospettiche che artisti o architetti utilizzano inserendole nelle loro opere, sa che lo spazio si può manipolare, che i sensi si possono ingannare, che ciò che vediamo non è né deve necessariamente essere realtà.
Decide di non rinunciare alla sua ‘creatura’, difenderà il progetto contro l’evidenza, lo realizzerà così come è stato pensato, infrangerà i limiti della materia conquistando l’impossibile.
La sfida lo esalta: traccia il perimetro della sua chiesa riportando in scala 1:10 le misure dell’abside, cosicché la sua profondità, inizialmente di 9,70 metri, diventa in realtà di 97 centimetri ed inserisce lo spazio simulato, con tanto di soffitto a cassettoni con rosone e colonnato portante, come parte integrante di quello reale che lo contiene.
Ciò che è non è ciò che sembra, ma l’osservatore cade nella rete dell’inganno perché, ci ricorda Gombrich, la visione è un meccanismo non dell’occhio, ma del pensiero, non vediamo ciò che crediamo di vedere ma quello che ci aspettiamo di vedere.
La visione infatti dipende da un atteggiamento mentale consolidatosi nel tempo, ma l’occhio che guarda, col passare dei secoli, è diventato sempre meno innocente, ha accumulato esperienze, trasformazioni, diverse culture e innumerevoli visioni, costruendo modelli di riferimento che richiamiamo tutte le volte che guardiamo il mondo.
La manipolazione volumetrica e spaziale che Bramante compie è un gesto di grande significato simbolico che, nella storia dell’architettura, si è ripetuto molte volte.
Ma perché mai, se zevianamente l’architettura è spazio interno tradotto in forma pura, tanti architetti in tutti i tempi hanno cercato di sabotare i confini di quello spazio, i limiti di quella forma sfidando le leggi fisiche? E’ questo che fanno, abbattendo illusionisticamente solide pareti, Bramante, Mantegna, Borromini, Bernini, che fa Mies van der Rohe per il quale la trasparenza dell’involucro è mezzo per spostare i confini in un oltre indefinito ed immateriale, quello che fa Frank O. Gehry srotolando le forme decostruite e frammentate di uno spazio senza inizio e senza fine, che fa Peter Eisenman con rotazioni, sovrapposizioni e intersezioni in uno spazio ‘ripiegato’ modificato nella sua tridimensionalità, ”un tipo di spazio emozionale, che riguarda quegli aspetti che non sono più associati all'affettivo, che non sono più della ragione, del significato, della funzione".
Multi-spazi e multi-versi che sembrano, alludono, evocano, suggeriscono, aggirando le ‘normali’ percezioni, spazi dai quali evadere fatti per essere violati, il contrario dello spazio puro, lo spazio interno racchiuso dall’architettura, rappresentativo di modelli astratti che non appartengono più alla contemporaneità.
La quale sembra decisamente orientata verso una spettacolarizzazione dell’effimero, inteso come contrario del durevole, per dare senso all’instabilità e alla mutevolezza del presente di una società liquida che sempre più si riconosce in una trans-architettura dove si ibridizzano reale e virtuale, natura ed artificio (Marcos Novak, "Babele 2000")
L’EXPO di Milano è un banco di prova al quale si sono misurate anche archistar di indubbia fama, da Norman Foster che plasma lo spazio secondo i ritmi sinuosi delle dune desertiche (”È stata una sfida architettonica fantastica! Il nostro obiettivo non era solamente quello di creare un edificio-icona, ma di costruire uno spazio che fosse parte integrante sia della nostra storia sia del tema”), a Daniel Libeskind che progetta un edificio in forma di drago ricoperto da lucenti squame rosse degno di Disneyland, a Italo Rota che, con forzata simbologia, realizza un padiglione come un ‘dhow’, tradizionale imbarcazione kuwaitiana per l’occasione tirata in secca, e altre stranezze.
In questa esibizione di vanitas vanitatum che celebra in realtà la caducità della vita e la scomparsa dell’homo faber, trova asilo un’architettura usa e getta liberata dalla responsabilità della durata, architettura effimera, temporary architecture, da consumare sul posto, spiccatamente sperimentale, smontabile, transitoria, riciclabile, pop-up architecture, tutto ciò che è contrario all’idea di architettura che fino a ieri ha voluto significare permanenza, stabilità, staticità, immutabilità.
Su tutto, una pioggia di effetti speciali, invenzioni digitali, esperienze multimediali tra ologrammi tridimensionali, personaggi virtuali e improbabili foreste urbane, in un grande show interattivo sfavillante di led concepito per arrivare alla pancia del visitatore, in un turbine percettivo che, cortocircuitando il cervello, lo sommerge di emozioni e sensazioni da sperimentare in modo ludico e acritico.
Del resto, il tema conduttore di questo Expo 2015 è il cibo!
Buon appetito! |