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Testi di Vilma Torselli su "Antithesi", giornale online di critica d'architettura.
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Parigi, all’Espace Lafayette-Drouot "The World of Bansky”, su 1200 mq. esposte un centinaio di opere del più famoso street artist del mondo. Fino al 31 dicembre 2021.
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Architetture lontane
di Vilma Torselli
pubblicato il 18/07/2018 |
"Dunque, tu vai laggiù? Come sarai lontano!"-"Lontano da dove?"
(dialogo ebraico) |
La geografia è nell’ultimo secolo profondamente cambiata sotto la spinta dell’evoluzione delle tecniche di indagine e di restituzione, la possibilità di disporre grazie a droni e voli aerei di immagini satellitari del telerilevamento terrestre, di fotografie e dati topografici su piattaforma GIS e di strumenti di consultazione alla portata di tutti e in continuo aggiornamento.
Di pari passo con il progresso tecnologico si è evoluto il concetto stesso di geografia, che oggi sempre più pare convergere verso il senso di una ‘geografia culturale’ che tiene conto non solo del territorio, ma anche del paesaggio, delle etnie, degli stati e delle frontiere, dei modelli di sviluppo, dei sistemi urbani ecc.
All’inizio del ‘900, a fronte di una concezione che già appariva riduttiva per questa disciplina, Friedrich Ratzel fonda una nuova branca, la geografia antropica, e conia la definizione di spazio vitale, in seguito si intensificano studi e ricerche che vanno da Rudolf Arnheim, teso ad assimilare la fruizione spaziale all’esperienza estetica come per l’arte visiva, a Edward Hall, inventore della prossemica, che punta sulla componente culturale e comportamentale che influenzerebbe in maniera determinante il concetto di spazio, a Gordon Cullen che pone l’accento sull’aspetto visivo dell’ambiente geografico ed urbano, con indirizzo sostanzialmente artistico-estetizzante, al pensiero funzionalista di Kevin Andrew Lynch, senza dimenticare il situazionismo di Debord, che introduce un filone chiaramente destabilizzante nell’analisi dell’ambiente e dell’aspetto comportamentistico e sensoriale dell’esperienza umana.
La geografia moderna, per la quale l’habitat è sempre più una costruzione culturale piuttosto che naturale, parte dal concetto che lo spazio geografico con il quale il nostro corpo interagisce generi ‘sensazioni’ molteplici legate appunto ai ‘sensi’, di tipo tattile, visivo, uditivo, olfattivo ecc., accanto a ‘percezioni’ che derivano dall’elaborazione soggettiva e personale delle sensazioni in funzione della base culturale, conoscitiva, etnica ecc. del soggetto coinvolto.
Le percezioni sono assai più complesse delle sensazioni, coinvolgendo anche aspetti psicologici del soggetto immerso nell’ambiente, tanto che si può parlare di psicogeografia, di geografia della percezione e di psicologia ambientale come oggetto di studi e discipline specifiche.
Si è insomma acquisito il concetto che la geografia dei luoghi non è definita solo dallo spazio, ma anche dalla rappresentazione che di esso elaborano i fruitori per effetto di una cultura di base che porta ciascuno di noi ad interagire con l’ambiente in modo del tutto peculiare.
“Tutte le cartografie -forme di rappresentazione e ‘traduzione’ della superficie terrestre- sono costruzioni sociali - afferma Massimo Rossi - è artificio puramente umano tracciare i confini di uno stato o un territorio e concretizzare l’idea che esista una linea che divide due civiltà, due culture [……]. Perché se la natura è neutrale, e innocua, essa non può aver assegnato ad alcun popolo il compito di espandersi fino ad occupare un determinato ambito geografico”.
Ma se è vero che esiste una imprescindibile relazione tra gli insediamenti umani e il territorio che li ospita, tra le comunità e la memoria storica di un passato condiviso, è anche vero che queste relazioni si modificano continuamente con l’evoluzione culturale di una società oggi sempre più mutevole, mobile, fluida e persino gassosa, come la definisce provocatoriamente Yves Michaud, dove l’interazione ambientale si arricchisce di sempre nuovi significati acquisendo una dimensione sempre più soggettiva.
Tanto più soggettiva, ristretta e personalizzata in quanto il mezzo tecnico permette ad ogni singolo utente di cambiare punti di vista, prospettive, scala dimensionale con rotazioni a 360°, operando profonde mutazioni dei modelli attraverso i quali leggere l’ambiente che ci circonda.
Lungo i tracciati irrazionali della psicogeografia Google Earth e Street View mettono il mondo alla portata di tutti, grazie a ciò “…. emerge un'abitudine crescente a guardare alle cose dall'alto o dalla distanza, il che spesso falsa la percezione di ciò che sta nell'immagine, per cui anche cose molto brutte possono apparire belle……” . |
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Tutto ciò ha una qualche relazione con la contemporanea architettura a forte contenuto iconico, un’architettura da guardare, narcisistica, autorappresentativa, estetizzante che aspira ad una connessione immediata, una comunicazione diretta e indiscriminata con tutto, anche se geograficamente lontano?
Esiste una chiave di lettura comune tra una geografia sempre più sensoriale e un’architettura sempre più emozionale?
E, restringendo il campo, è possibile e deontologicamente corretto che l’architetto di oggi progetti per “cittadini del mondo” dei quali conosce il contesto geografico più di quanto non ne conosca storia e cultura?
Questa conoscenza visuale sostituirà quella storico-culturale in quanto più immediata, più accessibile, più accettabile per l’odierna società dell’immagine?
“La quasi istantaneità dell’epoca software inaugura la svalutazione dello spazio - scrive Zygmunt Bauman - non c’è più differenza tra quanto percepito come lontano e quanto percepito come vicino, lo spazio è il sedimento del tempo necessario per annullarlo, e quando la velocità del movimento del capitale e dell’informazione eguaglia quella del segnale elettronico, l’annullamento della distanza è praticamente istantaneo e lo spazio perde la sua materialità, la sua capacità di rallentare, arrestare, contrastare o comunque costringere il movimento, tutte qualità che sono normalmente considerate i tratti distintivi della realtà, in questo processo la località perde valore“.
Oggi luoghi, città, eventi e uomini, catturati in tempo reale dal monitor, dallo schermo cinematografico, dal cellulare, si fanno prossimi e familiari, mentre il tempo e lo spazio della lontananza si azzerano grazie alla magia illusionaria dell’immagine, sempre più dettagliata, sempre più sostitutiva del reale.
“Tutto ciò ha dato vita a un’estetica della distanza, un’estetica capace di restituirci un’immagine nuova del mondo. Infatti, la costruzione di grattacieli e la possibilità di scattare delle foto satellitari, per esempio, ci hanno permesso di osservare il mondo da lontano …..” : ma questo spostamento di senso non finisce per tradire il concetto stesso di architettura, limitandola alla sola rappresentazione visiva di sé stessa in una anonima successione di non-luoghi?
Chi ha progettato le cattedrali gotiche, a Reims, a Coutance, a Chartres, certamente aveva in mente una visione dell'edificio dal basso, che costringesse il visitatore ad alzare il capo e lo sguardo verso l'alto in un gesto dal forte significato simbolico; chi ha imbrigliato nella visione razionale della prospettiva lineare le nitide strutture di Santa Maria Novella, di San Lorenzo, del Duomo di Firenze certamente pensava a una lettura guidata dalle regole dell’antropocentrismo, dove l’uomo rinascimentale era il centro di gravità dello spazio metaforico e fisico, non solo dell’architettura, ma dell’intero universo; verrà il barocco a sovvertire le regole, con le sue strutture ascensionali che rapiscono il visitatore in un turbine di sensazioni avvitandosi su se stesse e sollevandolo in uno spazio inaccessibile se non dall’illusione.
Il punto di vista, la posizione da cui si osserva un oggetto, è elemento fondamentale per una corretta lettura di qualsiasi linguaggio narrativo, ogni architettura ha scelto un suo punto di vista, su sé stessa, sull’uomo, sul mondo e in passato la mancanza dei moderni strumenti tecnologici, l’impossibilità non solo di ottenere, ma anche di pensare modi diversi di fruire l’architettura ne hanno scritto e tramandato l’unica storia possibile.
“Le tecnologie della comunicazione pretendono di abolire qualsiasi distanza, di eludere gli ostacoli del tempo e dello spazio, di dissolvere le oscurità del linguaggio, il mistero delle parole, le difficoltà dei rapporti, le incertezze dell’identità o le esitazione del pensiero”, ancora non sappiamo se la nuova ‘estetica della lontananza’ finirà per omogeneizzare le diversità (è proprio quello che ci chiede la globalizzazione) oppure per consolidare isolati poli di potere sempre più esclusivi, nel mondo svelato non c’è più nulla da cui prendere le distanze, non esiste più l’altrove come alternativa e possibilità, l’altrove del confronto, della scoperta, l’altrove come antitesi al “qui”, indispensabile per la costruzione dell’identità sia individuale che collettiva, l’altrove dell’utopia e della poesia.
Senza distanza non possiamo avvicinarci a nessuno, conoscere, stringere rapporti, la distanza rende possibile sia la vicinanza e che la lontananza, la distanza separa e differenzia, definisce l’individualismo e l’alterità, è percezione del sé nei confronti del resto del mondo.
Ma, dice Zygmunt Bauman nella sua critica alla globalizzazione, “ci sarebbe bisogno di una nuova etica della distanza”, perché l’accesso al mondo non sia solo l’accesso ad un’immagine del mondo, ma la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro e, per quanto lontano possa essere, della nostra responsabilità nei suoi confronti. |
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Altrove
Andiamo via, creatura mia,
via verso l'Altrove.
Lì ci sono giorni sempre miti
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Non abbiamo bisogno di una nave, creatura mia,
ma delle nostre speranze finchè saranno ancora belle,
non di rematori, ma di sfrenate fantasie.
Oh, andiamo a cercar l'Altrove. (Fernando Pessoa)
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