".....che tra il tradizionale e il nuovo, o tra ordine e avventura, non esiste una reale opposizione, e che quello che chiamiamo tradizione oggi è una tessitura di secoli di avventura." (Jorge Luis Borges)
La posizione dell’architettura italiana e dell’Italia in generale nei confronti della modernità e di tutto ciò che essa comporta è nel complesso caratterizzata da indifferenza, disattenzione e talvolta ostile resistenza. E’ una situazione allarmante, da più parti e da autorevoli voci denunciata, che rischia di relegarci in coda a quella marcia verso il progresso e la modernità che il resto del mondo civile sta compiendo a grandi passi: l’opinione comune è che dobbiamo allinearci, dobbiamo fare spazio all’architettura contemporanea, siamo nell’epoca dell’architettura moderna, quella dobbiamo fare.
Il sillogismo è paradossale, se pare che, per divenire moderna, l’Italia debba fare dell’architettura moderna, quando la relazione logica che lega causa ad effetto suggerirebbe il contrario. Diversamente, trasferendo questo diffuso atteggiamento dei critici di oggi per esempio nel XV secolo, le cose dovrebbero essere andate pressapoco così: un pensatore dell’epoca, un critico, un filosofo, uno storico, il rappresentante di qualche organo ufficiale, un bel mattino si sveglia e dice: “caspita, siamo in pieno barocco e nessuno se ne dà pensiero. Bernini, datti da fare, e tu, Borromini, cosa aspetti ad inventare l’architettura barocca?”
La critica dell’architettura legge nel passato quello che vuole leggere e di conseguenza sceglie i linguaggi e gli autori più adatti ad esprimerlo secondo la propria chiave di lettura (talvolta, come accaduto per il medioevo, cambiando radicalmente nel corso del tempo le sue valutazioni), ma trasferendo anche nella comprensione del presente la stessa necessità di storicizzazione, si finisce per assumere come riferimento un concetto astratto di “modernità” che non esiste, facendo a ritroso il percorso che dovrebbe invece far discendere dall’analisi della realtà, in questo caso dell’architettura prodotta, la categoria entro la quale collocarla.
Che poi, la categoria forse non esiste neppure lei, come non esiste l’architettura, ma solo l’opera di architettura esiste: sono parole di Louis Kahn ("Louis I. Kahn, idea e immagine", Officina, Roma 1980), che con perfetto parallelismo si riscontrano con quelle di Gombrich quando dice che non esiste una “cosa” chiamata arte, ma esistono gli artisti.
Ho letto da qualche parte che “la contemporaneità non é una qualità, non é uno stile, non é una religione, non é una saggezza, non é un'abilità, non é una estetica, non é una promessa, non é un ideale e neanche una delusione!”, la contemporaneità è un’attribuzione del momento storico che stiamo vivendo, non è né moderna né antica, è adesso, semplicemente, che ci piaccia o no.
Ed ogni modernità è a sé stante, perché basata, almeno dall’avvento dei movimenti artistici avanguardisti del ‘900, sul principio di discontinuità e di allontanamento centrifugo dal proprio passato, secondo un divenire che "…..non è la chiave del divenuto, perché la modernità ha separato irreversibilmente l'originato dalla propria origine come rapporto di causa ed effetto, di agente e di azione. Non solo quindi non è possibile percorrere a ritroso il tragitto verso la propria origine ma, di più, si diventa qualcuno e qualcosa, si diventa adulti, solo mediante quest'uscita irreversibile." (Iolanda Poma, “Percorsi di comprensione della modernità nella filosofia di Theodor W. Adorno” , Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia).
La chiave di lettura del divenuto è il movimento, il cambiamento, senza pretese di continuità e di correlazione né con la propria esperienza né a maggior ragione con l’altrui, confrontarci con l’architettura del resto del mondo, alla ricerca dell’essenza della modernità, non serve.
Se un linguaggio moderno, in senso generico, è oggi l’unico che permette la comunicazione nella contemporanea società globale dove molteplici culture si contaminano reciprocamente, bisogna comunque tener presente che globalizzazione vuol dire integrazione e compatibilità con la diversità, non omologazione, appiattimento e perdita di identità.
La modernità non nasce dal nulla su una tabula rasa, nasce dall’implicito confronto con il proprio passato, avendo coscienza che si tratta di un "rapporto irrisolto e lacunoso, il non è di ciò che è", di un percorso che non si può più ripercorrere, una via del non-ritorno sulla quale il passato deve essere definitivamente abbandonato, anche se vuol dire guardare in faccia la crisi che ci procura capire che la storia finisce e che il futuro non è più prevedibile (per questo Zevi parla di modernità rischiosa).
E’ un passaggio ineludibile che ogni società deve affrontare da sola, poco ci aiuta confrontarci con ciò che accade in America, sempre citata ad esempio per la libertà concessa dalla duttilità strutturale e dal pragmatismo del suo sistema ordinativo, che non è un modello esportabile, come non lo è il suo sistema democratico, il che è ampiamente provato non solo sul piano culturale.
Parafrasando Jerome Bruner si potrebbe dire che l’architettura è un po’ la narrazione della nostra storia, senza intendere la memoria come pura trascrizione del passato, perché il ricordo è sempre un atto d'invenzione.
E proprio nell’elaborazione del passato, patrimonio non condivisibile, peculiare per ogni individuo ed ogni società, ci sono tutte le ragioni della nostra attualità, è lì il nucleo promotore del cambiamento e della presa di coscienza di una propria, moderna autonomia intellettuale.
Si tratta di un processo che, per ogni individuo e per ogni società, ha i suoi modi ed i suoi tempi scanditi dalla memoria semantica, quel lessico mentale che contiene le informazioni sul mondo ed organizza il nostro pensiero in base ai significati ed ai referenti che la nostra cultura ha costruito. E la nostra cultura, che si voglia o no, è italiana. |