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Testi di Vilma Torselli su "Antithesi", giornale online di critica d'architettura.
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American Art 1961-2001 la storia dell'arte moderna negli Stati Uniti tra due momenti decisivi della storia americana, la guerra del Vietnam e l'attacco alle Torri Gemelle.
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Il metodo americano (parte seconda)
di Vilma Torselli
pubblicato il 24/08/2006

In realtà tutti gli espressionisti subiscono il fascino della tradizione culturale del vecchio continente, magari in un distorto rapporto di odio-amore, e tutti affondano più o meno consapevoli radici in quel movimento europeo che la fuga dalla seconda guerra mondiale e dalle misure antisemite spinge oltre oceano, alla ricerca di una nuova 'casa': a fornirla sarà Peggy Guggenheim, che apprezza, accoglie e protegge gli artisti del Surrealismo, questo il nome del movimento, e qualcuno lo sposa pure.
Il Surrealismo di importazione, a contatto con una realtà socio-culturale profondamente diversa, perde la connotazione intellettualistica ed introspettiva di derivazione europea per abbracciare il turbolento linguaggio gestuale degli action painters, la violenta estroversione di Jackson Pollock, il rarefatto spiritualismo di Mark Rothko, l'astrattismo lirico di Sam Francis, la poetica dell'inconscio di Barnett Newman, diventando altro, come succede sempre quando un fenomeno culturale approda al suolo americano.
Prevale, come si addice ad artisti in gran parte di origine ebraica - sono ebrei Mark Rothko, Morris Louis, Arshile Gorkij e molti altri, così come la maggior parte dei profughi surrealisti - una rigorosa aniconicità ("Non avrai altri dei al mio cospetto, non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra") ed un segno calligrafico o ideogrammatico dispiegato in grandi vuoti e mistici silenzi attraverso un'ampia gestualità a volte concitata ed a volte solenne e ieratica.

Il MOMA accoglie entusiasticamente nella sua collezione permanente le opere degli espressionisti, Nelson Rockefeller ne piazza 2500 esemplari sulle pareti delle Chase Manhattan banks, la Central Intelligence Agency, o meglio il ramo O.S.S. (Office of Strategic Services), specificatamente dedicato alla guerra fredda culturale, fa il resto, cosicché l'America finisce per avere finalmente un'arte che la rappresenta, quantomeno nell'immagine che essa vuol dare di sé al resto del mondo, un'arte libera e democratica in un paese libero e democratico, nella quale l'individualismo ed il soggettivismo hanno possibilità di esprimersi come in nessuna altra nazione del mondo, men che meno in regimi totalitari e repressivi dove l'arte è irreggimentata entro il rigido linguaggio costruttivista.
La storia dell'arte moderna americana ha finalmente un inizio.

Il metodo impiegato per l'affermazione sulla scena mondiale dell'arte moderna americana è sovrapponibile a quello usato per l'architettura, in entrambi i casi gli strumenti utilizzati sono gli stessi, i media, il danaro e la benevolenza della comunità ebraica.

"Di fronte a voi europei io sono veramente un emissario della terra, che predica il sale di una nuova vita. Io vi invito ad essere un po' meno autocoscientemente educati e conservatori, a essere più liberamente ragionevoli" scrive Frank Lloyd Wright, che per primo proclama una sua dichiarazione di indipendenza dalla sudditanza culturale nei confronti dell'Europa e chiede "Indipendenza dal classicismo, nuovo e vecchio, e da ogni atteggiamento di devozione ai cosiddetti classici" prendendo una posizione categorica ed integralista a favore di un'architettura nuova, legata al proprio ambito culturale, territoriale e sociale, la sua architettura organica, che esprime "una società organica", la società americana moderna.
Si è dovuto aspettare il 1988 perché venisse ribadita con altrettanta fermezza e consapevolezza una decisa presa di posizione a favore di una supremazia culturale eminentemente americana da parte di un agguerrito manipolo di architetti d'assalto, Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Peter Eisenman, Bernard Tschumi, Zaha Hadid e il gruppo Coop Himme(l)blau , presentati al mondo in una memorabile conferenza-déja vu al MOMA di New York (come non ricordare, infatti, "The Responsive Eye" ?) da quel Philips Johnson che, sulla breccia da più di mezzo secolo, si riscatta così dall'aver caldeggiato la sostanziale sudditanza dell'architettura americana nei confronti dell'Europa: nel 1991 sempre Johnson presenta alla Biennale di Venezia, anche questo un chiaro déja vu, i suoi gioielli, Eisenman e Gehry, rimangiandosi definitivamente ed elegantemente certe sue contrastanti posizioni degli anni trenta e la sua adesione, nel 1932, all'International Style, a suo tempo suggellata dall'immancabile mostra al MOMA.

Come gli espressionisti, anche questa nuova generazione di architetti decostruttivisti che pone le sue basi teoriche nelle costruzioni mentali di un filosofo francese, Jacques Derrida, non si sottrae all'influsso di ciò che è accaduto nell'Europa avanguardista ed è possibile rintracciare echi soprattutto dadaisti, futuristi e surrealisti nell'opera di Gehry piuttosto che di Eisenman o Tschumi. Anche in questo caso si contano parecchi aderenti ebrei o di origine ebraica - Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Peter Eisenman, per esempio - il che spiegherebbe forse la decostruzione nei termini dell'aniconicità formale di una architettura non prevedibile, che gioca pesantemente sulla destabilizzazione percettiva del fruitore.
L'architettura americana, comunque, che non ha capito e valorizzato appieno l'opera di Wright e che non ha avuto reale coscienza della superiorità del funzionalismo americano nei confronti del razionalismo europeo, si affranca finalmente dall'Europa a seguito di un vasto programma di diffusione e promozione della sua architettura decostruttivista e dei suoi rappresentanti, colonizzando culturalmente vasti spazi del vecchio continente con musei, mausolei e grattacieli decostruttivisti spesso chiaramente fuori luogo, fuori tempo e fuori contesto - le strutture amebiche a forma di brioche di Frank O. Gehry, quelle concettual-cervellotiche di Peter Eisenman, quelle vuotamente metafisiche di Daniel Libeskind, tanto per far tre nomi che vanno per la maggiore.

Non è certo una novità il fatto che il potere politico strumentalizzi e sfrutti la cultura come mezzo di affermazione politica - Bruno Zevi, ben conscio del potere dell'architettura, l'ha definita "…il termometro e la cartina al tornasole della giustizia e delle libertà radicate in consorzio sociale. Decostruisce le istituzioni omogenee del potere, della censura, dello sfascio premeditato e progetta scenari organici." - ci sono stati artisti ed architetti di regime in tutti i tempi ed in molti luoghi, ed è statisticamente rilevabile che storicamente il tentativo di imporre vincoli espressivi legati alle forme della tradizione figurativa costruttiva, classica in particolare, prevale nei regimi totalitari.
E' doveroso osservare che se una società pluralista, aperta alla ricerca del nuovo che quindi lascia spazio all'inventiva degli individui, come accade in sostanza nei regimi democratici dell'occidente ed in quello americano nella fattispecie, sceglie, per evidenti motivi di propaganda, di rappresentarsi con un'arte libera e critica anche nei confronti del suo stesso sistema sociale e delle sue deficienze, contribuisce di fatto al proprio benessere ed alla propria crescita morale nella misura in cui utilizza le forme di libertà espressiva per diagnosticare e denunciare i propri mali.
Tuttavia l'esistenza di un 'metodo americano', insospettabile nella società più libertaria del pianeta, ci insegna che ci sono molti modi per intendere la libertà e diverse strategie per aggirarla, anche apparentemente promuovendola.

pagine 1-2

link:
La politica culturale americana


DE ARCHITECTURA
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