Pur tenendo presente che tutta la storia dell'arte dell'ultimo
secolo fino agli anni ‘70, è marcatamente dominata
dall'avvento delle tecnologie, è anche vero che la
premessa a quanto sta oggi accadendo ha le sue radici concettuali
in un’idea di arte che sfugge ad una oggettualità
reale e statica, che richiede una partecipazione dell’osservatore
per essere compresa, che identifica il processo artistico
nella decontestualizzazione dell’oggetto anestetico convertito
in arte dall’opera demiurgica dell’artista, concetti
presenti in parecchi movimenti del secolo scorso a partire
dalle avanguardie storiche del primo novecento.
Se vogliamo individuare uno svolgimento temporale, si può
osservare che nel Dadaismo la poetica della casualità
obbliga l’osservatore ad una rilettura dell’oggetto
comune, sacralizzato dall’intervento dell’artista
e sottratto alla banalità del quotidiano trasformato
in “altro”, analogamente a quanto accade nella Pop
Art e nell’europeo Nouveau Réalisme, mentre nella
successiva action painting il fruitore è chiamato
addirittura ad interpretare il gesto dell’artista, nell’assoluta
indifferenza verso il prodotto finale, irrilevante nella sua compiutezza,
nel suo “essere”, significativo solo nel suo “divenire”. Infine negli anni ’60 manifestazioni come l’arte
comportamentale o Happening, la Body Art, la Land Art, finiscono per assottigliare ulteriormente
il contenuto dell’opera d’arte fino ad eliminarlo
del tutto, virtualizzandolo, per “un’arte che
riesce a fare a meno delle opere d’arte” (Francesco
Morante).
Questo percorso progressivamente dematerializza l’opera
d’arte spostandone il significato verso una sempre più
radicale concettualizzazione, fino a renderla transitoria,
temporanea ed effimera, un evento, “qualcosa che accade”,
di cui non resterà che una traccia documentale (sotto
forma di film, video, foto ecc…), un residuo “virtuale”
da attivare all’occorrenza per riprodurre “l’immagine”
dell’opera, che nella realtà non esiste più.
Le opere che ne derivano non hanno, o non hanno più,
una esistenza oggettuale, non possono essere esposte nei luoghi
solitamente deputati (gallerie, musei), non possono essere
commercializzate se non nella loro riproduzione tecnica, non
si possono conservare se non come traccia tecnologicamente
costruita, non possono essere esclusivamente possedute perché
immateriali o inesistenti: tutto ciò che esse “non
sono” è comune con l’opera d’arte digitale.
Appare oggi evidente come il fenomeno che complessivamente
va sotto il nome di arte
concettuale, rimasto sostanzialmente estraneo alla realtà
socio-culturale del suo tempo, avesse in sé significative
anticipazioni del digitale, inteso come linguaggio anoggettuale,
come flusso comunicativo, come evento collettivo che ha bisogno
di essere compreso e fruito per esistere.
Alle soglie di una mutazione culturale che sta cybernetizzando
l’intelligenza collettiva,
ciò che va tenuto presente è che l’arte
digitale, prima che una interazione tra uomo e macchina, è
un’interazione tra uomo e uomo attraverso la macchina,
come dovremo imparare a capire guardando con “nuovi occhi”
le tecnologie che stanno invasivamente impadronendosi delle
nostre vite in tutti i campi, per trasformarle in strumento
di conoscenza e sfruttarne al meglio l’enorme potenziale
comunicativo.
* articolo aggiornato il 8/04/2013
link:
Francesco Mai
Gianfranco Pugliese, "I miei frattali"
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