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Et in Arcadia digito....
di Stefano Baratti e Vilma Torselli
pubblicato il 3/06/2007
L'uso di un programma o l'opera di un tecnico programmatore non cambiano il lavoro dell'artista, che resta comunque estetico e produce sensazioni attraverso immagini: anche oggi la pittura continua a rappresentare la pazzia e la tragedia umana.

Le ultime conquiste tecnologiche sono destinate a produrre vere e proprie modificazioni antropologiche che avranno come risultato una specie di uomo del tutto diversa da quella con la quale abbiamo a che fare oggi ed un'analisi dei mutamenti da esse prodotti sulla percezione dell'immagine, del suono, dello spazio, della comunicazione va compiuta in termini filosofici di carattere generale, emancipati da ogni tentazione di conservatorismo culturale. Nel campo dell'arte visiva, similmente a quanto accaduto alla comparsa della tecnica fotografica, ora la confusione è molta ed in attesa che si depositi il polverone, non è chiaro se la strada da seguire sia una sintesi tra tecniche diverse oppure un sovvertimento definitivo del modo di fare arte, tanto che si delineano attualmente forme di ibridazione con interessanti contenuti sperimentali che portano l'impronta personale di ciascun artista. Si potrebbe essere indotti a pensare che forse ogni maniera è buona per rapportarsi con il digitale, purché ciò avvenga..... Sentiamo il parere di Stefano Baratti, artista digitale

Stefano Baratti: Forse…io, per esempio, che ho, per ciò che riguarda la pittura, una formazione artistica classica con origini tradizionali, procedo creando un disegno preparatorio complessivo, successivamente digitalizzato con la scansione per un'ulteriore elaborazione del colore tramite il protocollo di un software (Adobe Photshop) unitamente ad una tavoletta grafica interattiva (Wacom): a lavoro terminato, il disegno diviene un documento di archiviazione ottica, su disco fisso e copia su CD e/o Zip. Ciò che mi interessa è soprattutto la rapidità d'esecuzione e la vastità delle tonalità cromatiche consentite, all'interno di una dinamica di lavoro e di qualità non facilmente ottenibili utilizzando tecniche tradizionali, in una sintesi che restituisce in tempi eccezionali progetti che utilizzando metodi tradizionali forse non avrebbero nemmeno superato lo stato embrionale. Certo, a chi rimanga affezionato al concetto classico della "bottega dell'arte", un tale sistema di lavoro assume proporzioni cliniche, asettiche (qui non c'è nessun odore di trementina o acqua ragia, e tantomeno esposizione a sostanze tossiche) quelle, tout court, di una torre di controllo, dalla quale posso riproporre le stesse tematiche senza imbrattarmi di vernice e polvere.……

Artonweb: Mario Costa, professore di Estetica all'Università di Salerno e di "Metodologia della critica" all'Università di Napoli, dice che le nuove tecnologie "possiedono un basso indice di utilizzabilità soggettiva: condizionano, per così dire, molto di più l'artista. L'artista, il ricercatore estetico, deve fare molto di più i conti con questa asseità che sono le nuove tecnologie….." Sapere che ciò che ottieni è reso possibile dall'uso di un programma o dall'opera di un tecnico programmatore può creare un certo disagio, una sensazione di dipendenza che in qualche modo blocca la libertà e la spontaneità espressiva……..

Stefano Baratti: Paragonerei il computer alla camera oscura che nel diciasettesimo secolo riuscì ad agevolare Canaletto, Bellotto e Vermeer nell'esecuzione delle loro opere. L'artista resta sostanzialmente del tutto diverso dal programmatore, il suo lavoro resta comunque estetico, produce sensazioni attraverso immagini: credo che anche oggi la pittura continui a rappresentare la pazzia e la tragedia umana come momento catartico, eterno, attività miracolistica o menzogna irrisoria, dimensione occulta o soltanto prodotto di rifiuto di una lavanda gastrica, ma sempre intossicazione dionisiaca di tutti i tempi. Lo schermo di un computer, come la tela tradizionale, è un velo di Maya, che si pone tra la "cosa", oggetto del tutto inafferrabile, e la sua rappresentazione……….

Artonweb: Quindi l'artista, la funzione dell'artista, il suo ruolo non sono affatto venuti meno, le nuove tecnologie hanno semplicemente accentuato la componente concettuale del lavoro, anche se un discorso sullo "stile" inteso come momento fondamentale di ogni singola personalità artistica si fa estremamente più complicato, se pensiamo che il contenuto dell'opera digitale dipende dai contenuti filosofici e semiotici del singolo artista e dai diversi mezzi digitali con cui lo elabora. In generale mi pare sia nuovo l'atteggiamento degli artisti nei confronti del concetto di esclusività della proprietà dell'opera, che è cambiato: si va diffondendo l'idea di un'arte senza confini e senza proprietari, alcune recenti correnti, la E-Mail Art per esempio, nata dalla Mail Art, uno dei movimenti più interessanti e più diffusi degli ultimi quarant'anni, mandano per il mondo i lavori di artisti liberi dal condizionamento dei canali tradizionali, idealisticamente contrari all'odierna mercificazione dell'arte, che donano le loro opere ai destinatari di messaggi che viaggiano in internet. In fondo anche questo è uno dei modi in cui le nuove tecnologie cambieranno il mondo……..

Stefano Baratti: Intanto Internet, ha ridimensionato le prospettive spazio-temporali di un'epoca tradizionalmente legata a condizionamenti geografici, dove l'arte veniva incentrata su coordinate longitudinali preferenziali, tipo Parigi-Milano-New York. Credo si siano finalmente abbattute certe idee preconcette. Oggi, nel giro di un nanosecondo, un'artista della Costa d'Avorio è libero di far circolare le sue opere in tutto il mondo, facilmente reperibili su un'ampia gamma di gallerie digitali. La nostra epoca digitale, a mio avviso, ha enormemente modificato - e agevolato - il rapporto più democratico delle masse con l'opera d'arte. Grazie al risvolto democratico del web, oggi siamo in grado di proporre al pubblico un'alternativa alla vecchia rassegna critica incartapecorita dei vari Benedetto Croce del passato, e chiunque può liberamente esprimere e pubblicare le proprie opere senza necessariamente ricorrere ai consensi ufficiali degli "addetti ai lavori". Non viviamo più un'era romantica, come la reazione al positivismo del secolo scorso.

Artonweb: "Il "sistema dell'arte" sopravvive, più forte che mai, per ragioni di pura prassi. Esso è soltanto noioso e privo di interesse ma diventa insopportabile quando si accinge, come sta avvenendo, a far svolgere ai nuovi media il lavoro di quelli vecchi": sono sempre parole di Mario Costa, che rileva come, l'immagine digitale che elimina completamente il concetto di mimesi, di rappresentazione, che non ha bisogno di rapportarsi ad alcunché per ricevere un senso dal confronto con un altro da sé, sia una nuova entità, un concetto del tutto inedito che oggi viene accolto solo se travestito in modo da uniformarsi alla logica obsoleta di strutture vecchie, di una critica impreparata, di un pubblico disinformato, di artisti che pensano di fare arte digitale con operazioni di ricalco rese possibili da sofisticatissimi programmi di elaborazione dell'immagine, perché l'arte tradizionale continua ad esistere come modello.Da sempre ogni tecnologia innovativa viene assorbita dall'arte dapprima in modo puramente strumentale, internet, poi, si presta particolarmente per essere puro strumento di trasmissione, come hai detto sopra, ma è anche il mezzo per attuare, per esempio, il superamento del copyright rigidamente inteso (se si pensa che il digitale permette una riproducibilità immediata ed illimitata, a qualità costante, a costo zero) e per realizzare, entro limiti variabili, quel processo di interattività che resta una delle principali tematiche di tutta la più recente arte contemporanea, mirante al coinvolgimento dello spettatore nella genesi dell'opera (penso all'Happening, alla Body Art, alle performances di tanti movimenti concettuali, agli effetti optical della Op Art degli anni '60, all'Arte Cinetica). Forse sarà necessario aspettare per sapere se l'arte digitale è una irrealtà visibile, una realtà invisibile, un solido nulla, oppure "un'elaborazione dell'immagine in modo numerico, binario 0 o 1 - on/off, rappresentabile in pixel(raster) e vettori, misurabili in Bit, attraverso la mediazione di elaboratori e di monitor e display digitali"……, forse bisognerà lasciar fare agli artisti, e poi cercare un denominatore comune, un atteggiamento di base che ci permetta di dire "ecco, questo è il digitale"………

Stefano Baratti: Io stesso sono impegnato in un processo di eliminazione e di sostituzione. Non ho ancora capito quale tra i tanti percorsi e stili finora elaborati, sia quello più percorribile. Mancano il cavalletto, la tavolozza, le paste di lapislazzulo e il bianco di titanio. Mancano i campi di grano di Arles e le notti stellate dei Paintres Maudits. Per l'artista digitale l'unico contatto col mondo esterno è referenziale, un risultato elaborato dai motori di ricerca. L'arte digitale nasce entro parametri anfrattati, come gli studioli di Arduino da Basio, segreti e seminascosti, che potevano essere utili agli studia humanitatis del Duca di Montefeltro oppure alle indecorose avventure proto-scientifiche di un Paracelso o di qualche sventurato alchimista di Villa Palombara. Lavorare digitalmente significa soprattutto far aderire i propri glutei su una sedia, senza possibilità di movimento, ecco forse perché il filone descrittivo-figurativo si esprime oleograficamente, in frangenti diametralmente opposti a quelli dei lontani "vedutisti" del diciottesimo secolo, capitanati dal Van Wittel. L'arte digitale non si esprime più come "opera solare". Le vedute digitali sono rivissute internamente, non a contatto con la natura, o in osmosi con la topografia di un luogo. Ci troviamo nella penombra di modernissimi kunstcabinets, a bordo di diabolici marchingegni, come poteva essere il "Pantometrum Kircherianum" di Anastasio Kircher (chissà, forse l'archetipo di Windows 2000), che riteneva di avvalersene per vedere Dio. Ci troviamo anche di fronte ad un muro di incomunicabilità con i critici e gli artisti convenzionali, quasi sempre detrattori che vorrebbero relegare tutto il nostro lavoro in un ambito estraneo all'arte e più affine alla omologante pattumiera del videogioco. Ecco forse le ragioni del mio processo di eliminazione e sostituzione, del mio eclettismo e, sotto certi aspetti, della mia insicurezza di artista digitale. Ma non si trovavano nella medesima situazione i Carracci e tutta la scuola bolognese del primo seicento?

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