“Negli anni ’90 una battuta di moda ai festival dei nuovi media era che un pezzo dei nuovi media ha bisogno di due interfacce: una per coloro che si occupano di arte e una per tutti gli altri “(Lev Manovich, "New Media from Borges to HTML", 2002).
Fatte salve le asincronicità culturali e temporali, un simile concetto era già stato espresso molti decenni prima da Josè Ortega y Gasset in un breve saggio sul tema del profondo rinnovamento formale introdotto dalle avanguadie del primo Novecento non solo nelle arti visive, ma anche in musica e letteratura:“….., l'elemento caratteristico dell'arte contemporanea dal punto di vista sociologico è dato dal fatto che essa divide il pubblico in due classi di persone: quelli che capiscono e quelli che non capiscono…. ….". ("La disumanizzazione dell'arte", 1925).
In entrambi i casi, responsabile di questo sfasamento sembra essere l’irruzione delle nuove tecnologie. Se, con le avanguardie del ‘900, esse ottengono l’effetto di spostare l’attenzione dall’opera d’arte alle pratiche attraverso le quali viene realizzata, mettendo in crisi la centralità del genio, unico e solo, che fino ad allora deteneva il monopolio di artefice, oggi l’avvento e la diffusione del digitale ottiene di travalicare la distinzione tra generi e categorie, tra le modalità di fruizione, tra i modelli comunicativi, intaccando non solo il ‘fare arte’, ma l’idea stessa di arte e sostituendola con quella di medium.
La versatilità e la differenziazione dei nuovi strumenti digitali, più creativi di quanto non lo sia l’utilizzatore stesso, hanno definitivamente spazzato via la convinzione che la tecnica sia una componente marginale dell’arte, un tramite per esprimere un prodotto mentale, spirituale o concettuale, eminentemente ed esclusivamente umano.
All’alba del terzo millennio, complice un certo clima di immotivata euforia come si conviene ad ogni giro di boa millenario, l’arte digitale appariva un mondo pieno di promesse tutto da esplorare, un dirompente assestamento culturale che avrebbe cambiato rapidamente la storia dell’arte, asservendo nuovi strumenti alle sconfinate possibilità creative dell’artista.
Ma è successo il contrario.
“Le neo-tecnologie hanno la tendenza a costituirsi in blocchi e a formare degli ipermedia; crescono su sé stesse, al di fuori della cultura e tendono a dissolvere la cultura stessa; l'uomo è del tutto marginale ed il suo ruolo è sostanzialmente quello di far funzionare i diversi blocchi neo-tecnologici; le neo-tecnologie non sono più estensioni o protesi, nel senso mcluhaniano, ma estroversioni separate dei funzionamenti di base dell'umano che tendono progressivamente a farsi autonome e sé-operanti.” (“Dimenticare l’arte. Conversazione con Mario Costa” di Maurizio Bolognini).
Il problema non è comunque circoscrivibile solo all’arte, poiché, come scrive ancora Costa (“Ontologia dei media”, 2012) i nuovi media modificano in profondità la natura stessa dell'uomo e il suo senso della vita, alterandone il significato e decidendo autonomamente circa il modo in cui affrontarlo.
Secondo questa mutata visione del mondo, l’arte digitale, emancipandosi da ogni riferimento altro da sé che possa essere modello o traccia, e persino dalla sudditanza nei confronti dello stesso autore, si impone per una sua oggettiva rappresentatività autonoma e non parametrabile a quanto fino ad oggi sperimentato.
Per effetto di un’esplosione che proietta tutto all’intorno una rosa di frammenti (digital art, net art, web art, video art, software art, computer art, hacker art ecc.) riferibili talvolta al mezzo utilizzato, talvolta alle modalità di fruizione, talvolta alle finalità dell’artista, l’arte digitale è confluita nella polverizzazione del linguaggio che sembra oggi essere il limite estremo di quell’ibridazione di tutti i linguaggi auspicata fino a pochi anni fa come preziosa conquista di libertà.
Sbollito sulla via del non ritorno l’entusiasmo dell’eroica fase pionieristica, “il momento che stiamo vivendo – conclude Costa in una intervista rilasciata ad Ida Gerosa in tempi non sospetti - è di quelli cosiddetti "epocali" e in esso anche gli aspetti drammatici vanno vissuti con la consapevolezza della loro ineluttabilità”.
Attrezzandoci per la sopravvivenza.
Passati apparentemente indenni attraverso ed oltre il fatidico 2001, prigionieri di una odissea che pare ben lontana dalla fine, l’appello è ancora lo stesso:
“Apri i portelli, Hal “............ voglio scendere!
|