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Perché oggi si "fa" arte?
di Vilma Torselli
pubblicato il 7/04/2007
L'arte moderna come potente canale di comunicazione dell’incomunicabile, di catalizzatore per reazioni emotive che altrimenti resterebbero inespresse.

Non ci sono ragioni razionali in base alle quali si possa spiegare perché l’uomo, tra tutti gli esseri che popolano la terra, abbia deciso di dedicarsi ad un’attività apparentemente non utile né necessaria come la creazione artistica e la sua fruizione, semplicemente ed inspiegabilmente egli lo fa da millenni, da che ha abitato la prima caverna e ne ha invaso le pareti rocciose con i primi graffiti.
L’atto del decorare le pareti della sua tana pare per l’uomo un impulso ineludibile, in grado di potenziare quel basilare atto di appropriazione di un luogo che egli compie "abitandolo".
Ci dice la grammatica che il latino habitare è un verbo frequentativo (o intensivo) di habere (avere). Esso significa, innanzitutto, avere continuamente o ripetutamente. “Abitare” rimanda quindi all’avere con continuità. L’abitante, allora, “ha” il luogo in cui abita…" (Sebastiano Ghisu, “Essere, abitare, costruire, vedere”, 2005), e lo “ha” tanto più quanto più lo personalizza, lo rende unico e rispondente all’idea che ha di sé, attraverso l'arte, appunto.

Ma a distanza di millenni dal nostro antenato cavernicolo, perché si fa arte, oggi?

La domanda non è da poco, ed oggi interessa sia l’arte che la scienza, specie negli studi di molti moderni biologi, fra cui Semir Zeki, autore di un testo ormai cruciale nella moderna neurobiologia, “La visione dall’interno”, in cui egli analizza i rapporti fra arte e scienza, tra visione e cervello, e definisce una nuova disciplina che chiama Neuroestetica.
Seguendo la sua indagine, pare che si sia abbastanza vicini a capire, in estrema sintesi, come l'arte, sia per chi la produce che per chi ne fruisce, coinvolga una serie di operazioni che si svolgono nel cervello dell'uomo e come sia l' esperienza estetica che qualunque esperienza cognitiva siano soggette a leggi che regolano alcune attività cerebrali e coinvolgono alcune strutture nervose nello stesso modo in tutti gli uomini.
I quali sono animali visivi, animali spaziali e per i quali, secondo il modello di approccio psico-cognitivo elaborato da Zeki, l’arte può rappresentare una sorta di linguaggio universale con codici visivi leggibili da tutti indistintamente, al di là delle differenze e delle diversità etnico-socio-culturali.
L’arte sarebbe insomma uno dei tanti canali percettivi-cognitivi attraverso i quali l’uomo analizza il mondo che lo circonda e recepisce e scambia su di esso preziose informazioni.

Il concetto di arte, ed il significato di fare arte, mutano nel tempo a seconda dello sviluppo della cultura di un'epoca, della storia, della filosofia, dell’etica ecc., e se fino alla metà dell’ ‘800 era facile concepire l’arte come rappresentazione oggettiva della realtà, come mimesi del mondo (anche se tutte le opere del passato hanno connotazioni fortemente soggettive a seconda dei vari autori che le hanno prodotte), con l’avvento della fotografia l’arte ha abdicato al suo ruolo documentaristico, che la fotografa assolve meglio, con più precisione, più in fretta, a minor costo, attraversando una profonda e drammatica crisi d’identità.
Con l'avvento dell'Espressionismo tedesco cade il concetto di rappresentazione come riproduzione, l’arte visiva diventa mezzo per una profonda analisi della psiche umana, la rivolta antimimetica delle avanguardie del '900 inventa per l’arte, attraverso un lungo processo di travaglio e rinascita, un nuovo compito, quello di rappresentare non più la realtà concreta, ma quella invisibile, l’interiorità dell’animo umano, il subconscio, quello che la macchina fotografica non può materialmente cogliere.
E’ il ruolo che l’arte ha ancora oggi, perseguendolo ed esprimendolo nei vari modi della modernità, l’informale, l’astratto, il concettuale ecc…..

Ad una prima analisi, pare quindi che se l’arte esprime l’animo umano, allora ha senso che esista, in ogni tempo, con la funzione di potente canale di comunicazione dell’incomunicabile, di catalizzatore per reazioni emotive che altrimenti resterebbero inespresse.


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