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Lo spazio
di Vilma Torselli
pubblicato il 10/04/2007
Influenza dell'estetica orientale sull'evoluzione del concetto spaziale nell'arte americana ed europea, dall'architettura organica alla pittura segnica una comune sensibilità tra vecchio e nuovo mondo.
Il taoismo, risalente al V e IV sec. a.C., è un sistema filosofico eminentemente naturalistico fondato sulla dottrina del tao (la via), l’universale, l’indeterminato e l’ineffabile da cui tutto deriva e al quale poi tutto ritorna in un processo evolutivo continuo, norma etica universale a cui tutti gli uomini devono adeguarsi ed in cui il singolo, in quanto osservatore facente parte dell’intero sistema cosmologico, non può che dare giudizi autoreferenziali, immerso in un continuum spazio-temporale in incessante mutamento, indefinibile, perennemente in fieri, nel quale non ci sono regole ripetitive, simmetrie, ordini precostituiti.

Ciò determina nell’estetica orientale l’introduzione del concetto di mutamento e di diversità come elemento disequilibrante, dinamico, espresso attraverso l’asimmetria, per una concezione spaziale fluida e libera che mette in secondo piano il senso volumetrico dell’architettura e dell'arte visiva in generale, a favore di una dematerializzazione del concetto di spazio, concepito come spazio vuoto, cavità interna, negativo del contenitore esterno (la stessa esistenza dell’uomo, dice il taoismo, si svolge nel Vuoto mediano, spazio creatosi fra Cielo e Terra, formato dai Sei Soffi, che sono i quattro punti cardinali e le direzioni alto e basso).
Si genera così un aspetto della percezione spaziale che avrà importantissimi riflessi anche sull’arte moderna occidentale e contribuirà in maniera fondamentale ad attuare quel processo di allontanamento dai canoni classici, di ricerca del dinamismo della forma e della sua essenza al di là delle apparenze che le avanguardie europee del ‘900 hanno posto alla base delle loro poetiche.

In architettura, Frank Lloyd Wright, americano, porta ad una sintesi di eccezionale efficacia proprio le istanze europee passando attraverso lo studio dell’arte giapponese, proponendo una visione spaziale senza precedenti nella storia dell’architettura che mette al centro della progettazione lo spazio cavo interno, da cui il volume complessivo si genera e si diparte centrifugamente come logica conseguenza: è l'architettura organica.
Lo stesso Wright ricorda che Lao Tse per primo, cinquecento anni prima di Cristo, dichiara che “la realtà di un edificio non consiste in quattro pareti e un tetto, ma nello spazio racchiuso, nello spazio entro cui si vive" ed egli stesso scrive: “….L’ambiente interno, lo spazio entro cui si vive è il grande fatto dell’edificio…..”
Lo spazio interno, metafora dell’interiorità psicologica, grande tema di tutta l’opera di Wright, è uno spazio in attesa, che aspetta di divenire altro, di animarsi per la presenza dell’uomo, di essere acceso dai bagliori del fuoco, di impregnarsi di calore, di intridersi di luce, è uno spazio pronto a mutare, ad essere plasmato dal gesto, pronto ad accogliere, ad avvolgere, a proteggere, animato da inusuali connotazioni tattili per il chiaroscurato gioco plastico delle superfici murarie.
Come l’anima di un organismo vivente, è uno spazio psicologicamente attivo, capace di assorbire e restituire sentimenti ed emozioni.

Gli intellettuali della costa occidentale dell’America del nord, molti dei quali confluiranno poi nella Scuola del Pacifico, hanno sempre guardato con interesse al Giappone, alcuni vi si trasferirono per studiare e lavorare (come lo stesso Wright), e dal contatto con una cultura così diversa discende il concetto di uno spazio zen, lo spazio vuoto, che ha in sé il suo significato primo ed ultimo: è quello che Barnett Newman assume ad unico oggetto della rappresentazione interpretato come puro colore, dilagante dalle tele monumentali ad avvolgere lo spettatore, quello che ritroviamo in Mark Rothko come onda luminosa che invade lentamente l'ambiente e pervade l'osservatore, quietamente contemplativo, è lo spazio espanso di Franz Kline, nel quale si colloca il “violento gestualismo orientalizzante" di una pittura segnica calligrafica e ideogrammatica, è lo spazio di Wright che procede dall’interno verso l’esterno dilatandosi in libera articolazione, in assenza di un’intuizione geometrica unitaria, carico di energia, multidimensionale, pervaso da tensioni direzionali multiple, frantumato e riassemblato nella fluidità dei percorsi.

Anche l’Europa si interessa alla grafica giapponese, già dalla metà dell’ ‘800 Victor Horta e Henri van de Velde ne denunciano l’eco nei loro edifici Art Nouveau, così come molti pittori impressionisti (Paul Cézanne per esempio, anche se questa non sarà la direzione preferenziale), per giungere alla dichiarata influenza orientale nel Liberty e nelle opere di Henri de Toulouse-Lautrec o di Gustav Klimt: lo spazio si contrae, perde profondità, diventa bidimensionale, la forma è una piatta campitura cromatica priva di rilievo plastico.

Forse anche grazie alla mediazione di questa comune sensibilità verso l’arte giapponese, che in un certo senso costituisce un territorio di incontro tra vecchio e nuovo continente, saranno possibili proficui scambi culturali, l’architettura organica troverà terreno fertile in Europa e si svilupperà attraverso l’opera di Aalto, Berlage, Asplund e dei molti architetti che andranno in America per lavorare con Wright.
Parallelamente, anche in Europa si affermerà una pittura segnica ideogrammatica improntata al calligrafismo orientale, fortemente influenzata dalla pittura americana, come accade per di Hartung, Atlan, Soulages, Mirò, Klein, Capogrossi, una pittura che in Italia evolverà poi nell’Astrattismo venato di espressionismo di Afro o Emilio Vedova.

Siamo davanti all’ennesima chiusura del cerchio, un filo di Arianna percorre la cultura moderna rendendola un organismo unico, che talvolta può ignorare o negare alcune parti di sé ma che finisce sempre per ritrovare sé stesso.


DE ARCHITECTURA
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