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Max Ernst, "Forêt"
di Vilma Torselli
pubblicato il 16/05/2007
Mezzo espressivo dell'inconscio, il frottage porta in superficie le immagini fantastiche rivelate dalla struttura casuale della materia.
Max Ernst (1891-1976), dadaista e surrealista, sensibile alle istanze espressioniste di "Der Blaue Reiter" e del gruppo "Der Sturm" di Berlino, interessato alle teorie psicoanalitiche freudiane, affascinato dalla pittura metafisica di de Chirico, animo inquieto di ricercatore non solo delle tematiche, ma anche delle tecniche pittoriche e grafiche, realizza negli anni '20 una serie di composizioni sul ricorrente tema della foresta, ricordo dell'infanzia passata a Brühl in Germania, accompagnando il padre che proprio nella foresta si recava a dipingere.
La nascita del tema è legata alla nascita di una nuova tecnica che l'artista chiama dapprima grattage e poi frottage e che rappresenta la risposta nel campo delle arti visive alla scrittura automatica utilizzata dai poeti surrealisti, una variante di quella teoria dell'automatismo psichico in base alla quale Masson disegnava a china i suoi contorti grafismi, evocatori delle instabili immagini fantastiche di una realtà sfuggente sul punto di trasformarsi continuamente in qualcosa d'altro.

Il principio del frottage consiste nel passare un pezzo di grafite su un foglio di carta appoggiato sulla superficie scabra di una pietra, un'asse di legno o altro materiale, evidenziando e "tirando in superficie" le linee casuali prodotte dalle irregolarità del supporto con i suoi i rilievi e le sue rugosità, riducendo al minimo l'intervento cosciente dell'autore che opera senza intenzionalità alcuna ed al quale non è richiesto alcun specifico talento.
Suggestionato da un'affermazione di Leonardo da Vinci, che esortava i suoi allievi a lasciar vagare lo sguardo sulle macchie di umidità delle pareti prima di dare inizio ad un'opera per "esercitare lo spirito all'invenzione", Ernst elabora in chiave personale la tecnica, applicandola alla tela cosparsa di colore ad olio e poi abrasa dopo averla appoggiata su una superficie ruvida.
Compiuta questa operazione ed evidenziate le irregolarità della superficie colorata, in una specie di trance visiva, l'artista scrive: " ..... toutes sortes de matières pouvant se trouver dans mon champ visuel : des feuilles et leurs nervures, les bords effilochés d'une toile de sac, les coups de pinceaux d'une peinture moderne, un fil déroulé de bobine, etc." (Max Ernst, "Au-delà de la peinture", Cahiers d'Art, 1937).

Marcatamente surrealista, questo ,"Forêt" del 1927, un olio su tela, 114x146 cm. oggi alla Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe, Germania, parte dalle indicazioni formali che emergono dalla natura fisica del materiale trattato con il frottage per dar vita ad una struttura compositiva ricorrente in tutta la serie delle foreste: forme vagamente organiche, ramificate e legnose appartenenti ad un improbabile mondo vegetale, si organizzano in un piano verticale che occupa tutta la parte inferiore della tela secondo una struttura a ventaglio che nella parte superiore lascia il posto ad un cielo luminoso nel quale si staglia una sagoma circolare in parte occultata: elemento simbolico stilizzato in una forma geometrica perfetta ed essenziale, l'anello richiama l'idea di un astro, un disco, un occhio, una luna, una porta magica che dà accesso ad un mondo surreale. La componente simbolista della pittura di Ernst si consolida nel tema della foresta riprendendo un filone da sempre presente nell'arte tedesca, l’antico mito della selva germanica, lussureggiante mondo verde ricco di mistero e di suggestione
Visione onirica al di fuori di ogni rappresentazione logica, il quadro propone la contrapposizione tra un primo piano frontale, bidimensionale, e la profondità di uno sfondo aperto sulla luce dove inaspettatamente si staglia la forma geometrica, simbolico richiamo alla perfezione ed alla spiritualità, quasi che il reale, il concreto, la massa scura della foresta in primo piano, cupo scenario dai colori forti, ceda progressivamente alla mistica radiosità di un paesaggio interiore rivelandone, attraverso il passaggio per un accesso iniziatico, al di là delle apparenze, l'intimità e "l'inquietante estraneità".

* articolo aggiornato il 19/09/2014

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Albrecht Altdorfer, "San Giorgio e il drago"


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