Collega di Helen Frankenthaler, dalla quale,
come Morris Louis, verrà molto influenzato, Kenneth Noland (1924) rivisita in chiave critica l'Espressionismo astratto per derivarne un linguaggio severamente depurato da ogni componente
emozionale, a larghe stesure di colore, di assoluto controllo
formale per un'arte austera ed impersonale, intellettualisticamente
dominata, pur tuttavia non scevra da preoccupazioni decorativistiche
e da aspirazioni francamente estetizzanti.
Attraverso l'esperienza dei "Washington color painters",
gruppo di pittori operanti pricipalmente a Washington negli
anni '50, Noland si impone poi come uno dei maggiori rappresentanti
della Color-Field Painting, tale lo riconosce Clement Greenberg,
critico e teorico dell'Espressionismo, essendo contemporaneamente
rintracciabili nella sua opera parecchi riferimenti alla Op
Art per la
personale ricerca dinamica in chiave cromatica.
Questo "No.One", 1958, un acrilico su tela della
'The Clement Greenberg Collection', appartiene al primo periodo
di attività di Noland, in cui si strutturano alcuni
caratteri che, sebbene con sensibili variazioni, diverranno
capisaldi del suo linguaggio espressivo: la tendenza a non
dipingere grandi porzioni della tela, la predilezione, specie
in questo periodo, per la centralità dell'immagine
(i 'bersagli' cari anche a Jasper Johns), la propensione alla
forma curvilinea e circolare, una sensibilità sostanzialmente
geometrica.
Il che non gli impedirà, nel corso della
sua evoluzione artistica, di passare poi a forme diverse,
a losanga, a bande rettilinee, a quadrati smussati, a tramatura
da tessuto scozzese, a forme e supporti irregolari, in una
ricerca formale tesa ad unificare tutte le componenti della
pittura nel colore, poichè, per citare una sua celebre
affermazione "Ogni cosa è colore, il colore
in pittura è un modo per cercare di sospendere, di
far vibrare le cose senza affogarle nello strutturalismo del
surrealismo o del cubismo...La struttura è un elemento
molto importante, ma nella migliore pittura di colore la struttura
non è mai evidente e non è specchio rappresentativo
di qualcosa d'altro, solo di se stessa..." .
La dimensione della tela, di grandi proporzioni, viene da
Noland strumentalizzata per costringere l'osservatore a far
scorrere lo sguardo, a muovere l'occhio lungo le linee colorate,
inducendo così un dinamismo intrinseco legato all'attività
percettiva del colore, il quale non ha altra finalità
che manifestare sé stesso, mentre la forma viene ricondotta
alla sua espressione più elementare ed irrilevante.
Da questo linguaggio basico dai colori puri e timbrici, dalla
stesura uniforme, scaturiscono opere rigorose di grande sincerità,
strutturate soprattutto e prima di tutto come informazioni
visive, senza pretesa di alcun riverbero emozionale: Barbara
Rose in "Retrospective notes on the Washintong Colour
School" (1975) scrive che Noland "..... era disposto
a liberarsi di tutto ciò che interferiva con l'immediata
comunicatività dell'immagine. Questo comportava l'eliminazione
di ogni dettaglio o inflessione all'interno dell'opera....
" .
Il rischio, reale, di una dichiarata impersonalità
del risultato non esclude il valore pittorico di un'opera
che, a differenza, per esempio, di ciò che accade per
Louis Morris, è priva di ogni casualità, e forse
per questo ancora più lontana dall'emotività
irrazionale dell'Espressionismo astratto, è sufficiente
in sè stessa, autoreferenziale, non ambisce a sconfinare
in altri campi di espressione o di esperienza, obbedendo ad
un rigore minimalista che fa sì che "quello
che vedi è ciò che veramente vedi",
parafrasando Frank Stella.
Oggettiva, senza rimandi, riferimenti, debiti e memoria,
la pittura di Kenneth Noland ha il carattere radicale di un
linguaggio primario universale che attrae inspiegabilmente
e magicamente, senza che se ne comprenda a fondo la ragione.
Questo fa l'arte.
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