Per quanto strano possa sembrare osservando quest'opera, eseguita nella piena
maturità artistica, Giuseppe Capogrossi (1900-1972) esordisce come figurativo,
come rigoroso e colto seguace della tradizione classica italiana
che lo porta anche a copiare le opere di alcuni grandi maestri
del passato.
Nei primi anni '30 si nota l'inizio di un processo di progressiva
trasformazione che si concluderà alla fine degli anni
'40, attraverso il quale egli costruirà il suo definitivo
lnguaggio poetico, che farà di lui uno dei massimi esponenti
europei dell'informale, come riassume efficacemente, nel 1967,
Giulio Carlo Argan : "Fino ad una certa data Capogrossi
ha fatto una pittura figurativa e tonale, densa di contenuti
poetici. Poi li ha estromessi e, contemporaneamente, la figurazione
e' scomparsa. Da quel momento la sua pittura ha cessato di essere
elaborazione di materiale poetico ed e' diventata poesia nel
senso tecnico e strutturale del termine, come movimento metrico
e tessitura ritmica...".
Pur nella gradualità del processo evolutivo del linguaggio,
il radicale, concreto cambiamento dei mezzi espressivi è,
tuttavia, quasi repentino, dapprima evidenziato dal colore
che si fà più acceso e violento, dalla pennellata
più mossa, e poi dalla drastica riduzione dei temi
e delle figurazioni, fino a giungere ad una elaborazione semplificata
dello stesso motivo ed ad un passaggio deciso dal realismo
rappresentativo all'astrattismo, collocandosi al margine dell'astrazione
lirica.
Dice di Capogrossi, nel 1949, il critico e pittore Michel
Seuphor: .....improvvisamente, senza alcun segno premonitore,
abbandonò il figurativo per lastratto, il mestiere
per la fantasia.
Con una personale del 1950, Capogrossi si avvia dichiaratamente
verso un linguaggio anoggettivo, che privilegia il senso strutturale
della rappresentazione, la ricerca di una metrica e di una
ritmica espresse da moduli grafici ricorrenti, segni di valore
simbolico, talvolta vicini agli ideogrammi, impressi sulla
tela secondo precisi ritmi spaziali ed armoniose strutture
compositive (molto significativa la sua adesione al manifesto
spazialista di Fontana, Crippa e Dova).
Mi pare che Sir Roland Penrose, critico e collezionista inglese,
individui in modo perfetto le caratteristiche dell'opera di
Capogrossi quando afferma: "I suoi segni individuali
richiamano, specie quando vengono ripetuti in serie, alfabeti
di lingue che non possiamo leggere, ma nei quali l'effetto
di consequenzialità e di ordine è tale da implicare
la presenza di un significato..........I quadri di Capogrossi
appaiono simili a rendiconti di luoghi da tempo scomparsi..........La
loro finitura semplice e pulita è qualcosa di impersonale
e di contemporaneo......".
L'apparenza impersonale dell'opera di Capogrossi, che Penrose
rileva in altre occasioni con una certa insistenza, è
in realtà la ricerca di un ordine, di un'essenza quasi
algebrica del segno, che si libera nella ripetizione del classico
grafema artigliato, a tridente, reiterato eppure mai ripetitivo,
slegato da ogni convenzionalismo poetico, nel quale, come
dichiara lo stesso Capogrossi, egli trova la libertà,
la felicità, la pienezza del proprio essere, lespressione
diretta del proprio esistere.
In questa "Superficie G.108" del 1960, collage
su carta intelata di 90 x 70 cm, come in altre composizioni
di Capogrossi, pulsa un ritmo primitivo, quasi espressione
di un ordine arcaico precostituito, scritto nella natura con
segni forti e vagamente ossessivi, caricati di significati
simbolici, immersi in uno spazio monumentale che ignora la
prospettiva: per effetto di una potente suggestione allusiva
che travalica qualsiasi riferimento naturalistico, ogni elemento
grafico diventa "segno", sigla grafica elementare,
reperto archeologico di una realtà metafisica, che
trasfigura ed assimila le forme naturali in una tessitura
potente di viva forza emotiva e di grande dignità formale.
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