La Pop Art è il più tipico movimento
artistico, prevalentemente americano, degli anni '60, così
come l'Espressionismo astratto lo era stato per gli anni '50,
ed è una sorta di spartiacque sotto due punti di vista:
divide l'arte moderna da un fenomeno più attualizzato
che si identifica come arte contemporanea, e divide nettamente
l'arte americana da quella del resto del mondo, perchè,
più di qualunque altro movimento dichiaratamente americano,
la Pop Art è qualcosa di assolutamente peculiare rispetto
a ciò che avviene in Europa ed alla stessa Pop Art inglese.
Padre spirituale, senza dubbio il più noto, se non il
più valido, esponente dell'arte pop è Andy Warhol o Andrew Warhola (questo il suo vero nome) (1928-1987), enigmatica personalità
artistica ed umana, per capire il quale è utile indagare
in un retroterra culturale e professionale del tutto particolare,
fortemente incisivo nella definizione della sua poetica.
Warhol proviene dall'illustrazione commerciale, ha fatto
il vetrinista, l'allestitore di stand, il redattore di cataloghi,
ha realizzato cartoline e biglietti augurali, attività
nelle quali predomina l'assoluta sottomissione alle esigenze
ed ai gusti del cliente, che è il vero destinatario
dell'emozione derivata dall'opera, in una sorta di spersonalizzazione,
di annullamento dell'emotività artistica, che definiranno
indelebilmente il suo modo di operare.
Da questo mondo privo di emozioni e di stile personale, dove
l'oggetto artistico è essenzialmente un oggetto del
desiderio, da commercializzare nel modo più efficace,
Warhol volge poi la sua attenzione al mondo dei fumetti, realizzando
gigantografie delle strisce di Dick Tracy, sempre con funzione
decorativa (per le vetrine di Lord and Taylor), optando ancora
una volta per un'esecuzione che non ha nulla di "naturale",
di istintivo o emotivo, nella quale è bandita ogni
traccia personale della mano dell'artista, nella quale intenzionalmente
viene abolita ogni impronta di soggettività, a beneficio
di una soluzione formale che vada bene per tutti e per ogni
scopo, anonima e perciò universale.
L'oggetto rappresentato non ha altro fine che proporre sè
stesso, non messaggi o idee, non deve suscitare emozioni, deve
solo apparire per quello che è, preferibilmente un familiare
simbolo dell'american way of life, anche quando si tratta di
una semplice scatola di minestra: intervistato da G.R.Swenson,
storico dell'arte, nel 1963, sul perchè avesse riprodotto
proprio una scatola di zuppa Campbell, risponde "Perchè
mangiavo quella minestra. Ne ho mangiata ogni giorno, credo
per una ventina d'anni....."
A sottolineare la mancanza di significato della rappresentazione,
Warhol introduce poi il concetto della ripetitività seriale
della stessa, come per questo "Elvis I and II" del
1963, che perde ulteriormente ogni carattere identitario proprio
perchè riproposta più volte sempre monotonamente
uguale a sè stessa, priva di caratteristiche distintive,
giungendo così, coerentemente, al passo successivo, che
è quello della riproduzione meccanica dell'opera (sono
gli anni '60), oltretutto in termini formali di una voluta rozzezza
esecutiva (serigrafie di bassa qualità, nelle quali è
in dubbio il suo stesso intervento).
E' la stigmatizzazione di una società consumistica che
segue passivamente comportamenti di massa omologati e ripetitivi,
come se anche la vita degli uomini possa essere impostata a
macchina e fatta in serie, alla quale Warhol si adegua, mettendone
ironicamente in risalto gli aspetti grotteschi e dicendo: "La
ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere
una macchina, e sento che qualsiasi cosa io faccia come una
macchina è precisamente ciò che desidero fare."
Se mai Warhol avesse avuto aspirazioni artistiche verso la
pittura o il disegno, il suo percorso personale lo allontana
definitivamente da questo ambito, esasperando la componente
in un certo senso concettuale del suo lavoro, che si connota
definitivamente nella demistificatoria esibizione dell'oggetto
banale e quotidiano, del prodotto di serie industriale, decontestualizzato
e proposto come arte agli occhi di una società culturalmente
livellata, incapace di vedere oltre gli archetipi consumistici
esposti nei supermercati.
Il consumismo, il suo potere di massificazione, le sue possibilità
di divinizzazione, la sua capacità di azzeramento dell'individualismo
sono il tema ricorrente che lega tutta l'opera di Warhol,
un consumismo che egli estende anche all'arte, evidenziandone
i meccanismi di commercializzazione e sfruttando abilmente
le leggi del mercato, fondando nel 1957 la Andy Warhol
Enterprises, unazienda attraverso la quale attuare
una massiccia commercializzazione delle sue opere, con spregiudicati
intenti speculativi : "Business art is the step that
comes after Art. I started as a commercial artist, and I want
to finish as a business artist. After I did the thing called
"art"or whatever it's called, I went into business
art. I wanted to be an Art Businessman or a BusinessArtist."
La commercializzazione dell'opera riprodotta viene attuata
secondo le regole della pubblicità, secondo i criteri
dello stile impersonale e tecnologico del marketing, nasce
una nuova sensibilità ottica dell'immagine, celebrata
per sè stessa, priva di qualsiasi messaggio sociale.
E', quello di Warhol, un atteggiamento di sfiducia totale
nelle possibilità di riscatto dal sonnolento consumismo
del benessere e della sovrabbondanza, è un nichilismo
totale che, in una parte forse meno nota della produzione
di Warhol, sfocia nella riproduzione serigrafica di una serie
di scene catastrofiche, da lui battezzate "Disasters",
di manifestazioni di piazza o di incidenti stradali, in immagini
volutamente raccapriccianti e sgradevoli.
A simboleggiare il rifiuto della società verso gli
aspetti della realtà meno piacevoli ed edonistici,
le scene urtanti vengono ricoperte da una mano di colore trasparente,
sulla gamma dei rosa-arancio, che in una certa misura filtra
fisicamente l'immagine ed emotivamente la reazione dell'osservatore,
con un effetto anestetizzante verso il dolore e la tragedia.
E' esattamente ciò che accade nella vita di una società
dove la violenza è regola, dalla quale ci si difende
con l'indifferenza e con l'assuefazione, perchè, come
osserva Warhol, "quando osservate uno spettacolo raccapricciante
abbastanza a lungo, esso cessa di farvi un qualsiasi effetto."
Come sempre accade quando si parla di arte, la negazione
della volontà di fare arte è già di per
sè una scelta in qualche modo "artistica",
è accaduto per il Dadaismo, è accaduto con Duchamp,
e quando Warhol decide di "sacralizzare la merce come
merce", compie tutto sommato un'operazione di sublimazione
della merce e dell'atto della mercificazione, e in definitiva
fa dell'arte, anzi fa della Pop Art.
links
Time capsule
Trent'anni dalla morte di Andy Warhol
Pop Art
Andy Warhol e i ritratti di Marilyn
Andy Warhol, "Elvis I and II"
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