Renato Guttuso (1911-1987) dipinge l'affresco
"Fuga in Egitto" sul muro esterno della terza cappella
del Sacro Monte di Varese nel 1983, in occasione della ristrutturazione
dell'edificio, donando l'opera alla sua patria d'adozione, un
lembo di territorio lombardo sulle pendici del monte di Varese
in cui l'artista allestisce il suo studio negli ultimi vent'anni
della sua vita.
L'affresco si estende per 30 metriquadri e ne sostituisce uno
precedente, opera di Carlo Francesco Nuvolone (1609-1662)
che al Sacro Monte eseguì affreschi nella Terza e nella
Quinta Cappella, andato perduto a causa di un errore nell'edificazione
del muro.
La vita del Cristo è un tema molto presente in tutta
la storia dell'arte, da duemila anni a questa parte celebri
scene della natività sono state dipinte da Giotto, El
Greco, Beato angelico, Caravaggio, Luca Signorelli, Piero della
Francesca, Guttuso non si sottrae alla suggestione di uno degli
episodi più noti del ciclo della vita di Gesù,
uno dei momenti più avventurosi e favolistici, la fuga
in Egitto della sua famiglia, che gli permise di aver salva
la vita dalla ferocia di Erode.
Guttuso non è religioso in senso letterale (la chiesa
lo bolla come pictor diabolicus), è un
libertario di sinistra, comunista in opposizione a tutte le
chiese, fortemente schierato politicamente su posizioni di
ferreo laicismo sul quale si radica il suo linguaggio figurativo
ribollente di protesta proletaria, eppure affronta con commovente
emotività molti temi religiosi, fra i quali una drammatica
"Crocifissione" del 1941, anche quella in chiave
nettamente simbolica, dove un umanissimo Cristo crocifisso
è la sofferta metafora dello stato esistenziale dell'umanità
tutta.
Preceduto da numerosi bozzetti e studi eseguiti lungo il
corso di alcuni anni precedenti, il grande murale del Sacro
Monte, eseguito all'aperto con colori acrilici, pur nell'immediatezza
e nella chiara figuratività tipiche del linguaggio
espressivo di Guttuso, ha una marcata impronta allegorica
per la quale la narrazione di un evento, già di per
sé di straordinaria importanza per il mondo cristiano,
si trasforma in un paradigma di portata universale che supera
i fatti storici, il loro valore religioso, i limiti temporali
contingenti: è così che Giuseppe, un profugo
palestinese in cerca di rifugio, della salvezza della sua
famiglia, del suolo della sua patria, diventa simbolo di tutti
i fuggiaschi del mondo, dei diseredati di tutta le terre,
degli esuli, dei deboli e degli oppressi.
La scena ha il carattere agreste e contadino di tanti quadri
di Guttuso, uomini ed animali insieme, persone in abiti modesti,
figure popolari, le figure umane raccolte attorno al bimbo
divino, un gruppo in cammino in una composizione che si muove
verso sinistra, preceduta da una colomba, sullo sfondo di
un paesaggio dal caldo cromatismo mediterraneo, più
siciliano che palestinese, a denunciare come il racconto biblico,
nell'immaginario dell'artista, si sovrapponga alla memoria
personale e si contamini con un sentito autobiografismo.
Quel povero profugo palestinese è al tempo stesso un
contadino siciliano, è un compaesano, è un umile
lavoratore dei campi o delle zolfatare, un operaio delle cave,
uno dei tanti personaggi che popolano la pittura di denuncia
sociale di Guttuso, e il viaggio del Cristo diventa così
un simbolico viaggio di ritorno alle origini ancestrali della
sua terra isolana tanto amata.
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