Nata a Parma, Candida Ferrari fin dagli anni
della formazione accademica ha instaurato un profondo rapporto
con Milano. Allieva di Guido Ballo sente vicino al suo ancor
sconosciuto percorso Atanasio Soldati su cui svolge la tesi.
Inizia l’indagine cromatica e geometrica nella suggestione
malevitchiana e con lo sguardo rivolto a Kandisky e al Bauhaus.
Aderisce ai movimenti di Arte Concettuale e Cinetica dell’area
milanese negli anni ‘70 proponendo il suo pensiero nel
panorama culturale di Parma, molto attiva in quegli anni fra
teatri di ricerca e gallerie attente ai nuovi passaggi artistici.
Nel 1983 Candida Ferrari propone gestualità essenziali
nel calco invisibile del plexiglas, evidenziati dal curatore
Roberto Tassi, come scelte senza ritorno propositive di una
riorganizzazione del percorso svolto. Gianni Cavazzini attento
osservatore al lavoro dell’artista, scandisce per fasi
creative la relazione tra il linguaggio scenico e il limite
del supporto. In tal senso Candida Ferrari porta la ricerca
scenico-cromatica nei confini del bianco e della sua luce.
Estraniata dalla tela e proiettata in ambienti urbani caratterizzati
storicamente, come lo stadio di Domiziano a Roma e piazza
Cesare Battisti di Parma, la luce d’arte di Candida
Ferrari è la possibilità per cogliere l’oltre
o l’invisibile del luogo attraverso l’immaterialità
del media.
L’installazione è il linguaggio che meglio rappresenta
la poetica di Candida Ferrari, sintesi di delicato equilibrio
tra pittura e scultura, tra morbidezza e forza, tra matericità
e lievità, tra rigidità e flessibilità,
con un’attenzione sensibile e raffinata verso i valori
anche tattili dei materiali ed una capacità del tutto
peculiare nell’integrare in un discorso trasversale,
omogeneo e complesso, spunti diversi e distanti (“i
lavori di Ferrari, al di là di come si presentano alla
vista, ora come quadri, ora come sculture, ora come installazioni,
esprimono tutti un’essenza, un fondamento." scrive
di lei Giorgio Bonomi).
I materiali divenuti ormai cifra fondamentale nella produzione
artistica di Candida Ferrari, sono principalmente il plexiglas
e l’acetato (è solita usare anche pvc, gomma,
rame, foglia d’oro, bitume) unitamente ai colori acrilici,
sempre e solo due le marche impiegate, una per i colori, l’altra
per il bianco.
Con questi mezzi elettivi si è connotato negli anni
lo “stile” di Candida Ferrari, (“le
opere di Candida sono “dipinte” di “trasparenza”,
scrive ancora Giorgio Bonomi), uno stile che vuole affermarsi,
per dichiarazione esplicita dell’interessata e per necessità
di un’adesione totale anche ai materiali del nostro
tempo, inequivocabilmente “moderno”, come moderno
è il materiale plastico impiegato, un materiale che,
dice Candida Ferrari “ha interpretato il nostro
secolo: lo odiamo, ma non possiamo farne a meno”:
è questo il motivo per il quale l’artista lo
preferisce al vetro, da sempre identificato come il simbolo
stesso della trasparenza.
Ma non inganni l’impalpabile leggerezza delle luci,
la lievità dei volumi attraversati dal colore, la flessuosità
delle forme morbidamente avvolgenti: dietro tutto ciò
c’è un sofferto corpo a corpo tra anima e materia,
la lotta dell’idea che “cova in fondo
- dice Candida Ferrari - e cerca faticosamente di passare
dalla testa alle mani“, il lavoro attento e rigoroso
di una fucina delle idee, in cui il plexiglas viene piegato
e curvato con la fiamma, senza l’ausilio di alcuno stampo
che ne faciliti la lavorazione, tagliato e sagomato a caldo,
domato dalla mano ferma e forte di una donna del nostro tempo
che ci insegna come il confronto senza mediazioni con ogni
materia sia un passo fondamentale per arrivare al massimo
dell’astrazione, alla luce, l’immateriale per
eccellenza, che attraverso il colore, attraverso gli spazi
dilatati dalla trasparenza del supporto, sublima la materia
fino a farne testimonianza dell’invisibile.
sito personale di Candida Ferrari
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