PASSO PASSO
Quando in Italia si legge la Commedia dantesca, a scuola
(quasi esclusivamente a scuola, ahi), di norma ci si sofferma
specialmente sull’Inferno. Forse perché è
più scenografico, spettacolare? O forse perché
è – o sembra – più pruriginoso,
più materia di pettegolezzo?
Non è lettura facile, la Divina Commedia, d’accordo
– e forse i più si spaventano presto, e dopo
la curiosità iniziale faticano a tenere l’andatura,
e così piano piano mollano, cominciano a distrarsi,
si disabituano, si disamorano, alla fine si dimenticano.
Peccato.
Perché in definitiva sempre di peccati si parla –
e cioè dell’Italia: terra quanto mai peccatrice,
nei secoli; terra quanto mai impregnata di ipocrisia cattolica,
sempre attraverso i suoi due millenni di storia cristiana;
terra quanto mai pronta alternativamente a peccare e a pentirsi,
e a peccare di nuovo e a pentirsi di nuovo, e di nuovo a
peccare e di nuovo a pentirsi, e via così all’infinito.
E pure l’idea del Purgatorio, idea cattolica e non
cristiana, appare ed è un’idea italiana, deliziosamente
(si fa per dire) ipocritamente italiana. Non sarebbe male,
dunque, studiarsene significati e significanti un po’
più a lungo e un po’ più a fondo.
Tra i molti insegnamenti, più o meno importanti,
che si possono ricavare dalla lettura del Purgatorio dantesco
tuttavia ciò che rimane più impresso, meglio
sedimentato nella memoria, malgrado l’inevitabile
invecchiamento cerebrale del lettore anche più volonteroso,
è il sentimento generale, quello che non mette più
perfettamente a fuoco i particolari ma bensì domina
semplificatore tra le masse dei nostri rimpinzati neuroni.
Resta quindi dell’antica lettura soprattutto il ricordo
di una passeggiata, una lunga lunga passeggiata, per i meandri
di una specie di bizzarro lunapark un po’ attutito
nei colori e nei suoni.
Mentre dell’esplorazione dell’Inferno si rammentano
meglio le “attrazioni”, chiamiamole così,
ossia personaggi tutti in qualche modo eccessivi, alcuni
davvero titanici, peccatori così grandi da assurgere
a dimensioni eroiche, ben diversamente nel Purgatorio le
singole personalità peccatrici si stemperano, pur
tra i loro tormenti, comunque non eterni ma destinati prima
o poi a terminare; e i nuovi caratteri si opacizzano quasi,
inevitabilmente meno estremisti, nel loro aver peccato,
rispetto agli abitanti della ben più fosca –
per quanto sfavillante – Cantica precedente.
Ma passeggiando lentamente al fianco di Chiara Dattola su
e su per le sette cornici ascendenti del Purgatorio, racchiuse
tra l’Antipurgatorio e il Paradiso Terrestre, nel
corso della pur laboriosa gita ecco che la nostra visione
muta, si rinnova scoprendo altri stimolanti punti di vista.
Si ravvivano i colori, si rianimano i ricordi, si sommuovono
i sentimenti.
Del Purgatorio la giovane artista coglie subito la caratteristica
di ponte tra Inferno e Paradiso, tra Caos e Ordine. Nelle
sue immagini si coglie, vibrante, il tentativo ontologico
di trovare un assetto accettabile nel subbuglio dell’esistente.
Appare lampante in atto, insomma, un gioco di contrapposizioni
che si sfidano tra loro in cerca di qualche equilibrio,
pur altalenante.
Il pellegrinaggio dei penitenti sul sentiero faticoso della
salvezza è sorvegliato in modi quasi allarmanti dagli
sguardi sovranamente severi delle sentinelle angeliche,
sempre ben visibili e riconoscibili nei loro fulgori alati.
Il cammino dell’espiazione è un percorso iniziatico,
che Chiara Dattola ben compendia tra linee spezzate eppure
morbide, nel loro accalcarsi in cerca della propria purificazione.
Ben altro che il tranquillo lunapark che ricordavamo: qui
si pena. Ma in technicolor.
Ferruccio Giromini
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ABBAGLIANTE
Scivolare nella terza Cantica dantesca è come, idealmente,
mollare ora ormeggi e ora zavorre e d’improvviso decollare
in mongolfiera, inebriandosi dell’improvvisa perdita
di gravità e stabilità. È anche, naturalmente,
come provare un lieve capogiro, un grato e inatteso senso
di refrigerio e quasi di conforto, dopo i tanti subbugli
e batticuori sopportati fin qui.
Sì, laggiù scompaiono, sempre più lontani
e piccini, i Misteri Dolorosi; mentre ora lassù appaiono,
sempre più vicini e nitidi, i Misteri Gaudiosi e
Gloriosi. E noi galleggiamo attoniti tra il basso e l’alto,
noi poveri piccoli, un po’ inebetiti dall’incomprensibile
e dall’enorme con cui adesso dobbiamo confrontarci.
Lo scarto sensibile dal Paradiso Terrestre al Paradiso Celeste
può essere serenamente scioccante. L’ascendenza
fisica si trasfigura in mistica trascendenza. Si sperimenta
e si saggia l’immateriale – e non è cosa
di tutti i giorni, suvvia. Non potremo più essere
gli stessi di prima.
Confrontandosi attenta con l’etero e l’incorporeo,
anche l’arte di Chiara Dattola si rivede: ecco che
leva lo sguardo verso l’alto. Altre luci piovono ampie,
ben altre da quelle che sprizzavano dalle fiamme infernali
o ristagnavano nelle brume purgatoriali. Altre ampiezze
si estendono lucenti, ben altre dalle anfrattuosità
e dalle angustie che ci siamo lasciati dietro. Si rivede
tutto, tutto va rivisto.
Il nòcciolo della intrinseca bellezza del Paradiso
di Dante, concettualmente ed esteticamente parlando, è
la contemporanea coesistenza – quindi nello spazio
oltre che nel tempo – nell’Empireo, ovvero nel
catino della Rosa Mistica, dei nove cieli: da quelli dei
sette pianeti del nostro sistema solare alla sfera delle
Stelle Fisse e infine al Primo Mobile, fulcro fulgente dell’architettura
paradisiaca. Un concetto difficile da cogliere, ci vuole
davvero un atto di fede.
Ma qui siamo immersi nella contemplazione di Dio, mica bazzecole.
Che ci si creda o che non ci si creda. Chiara Dattola ci
aiuta soccorrevole, con la ferma pedagogia delle sue immagini,
e tuttavia noi non possiamo non essere un po’ smarriti.
Forse ci intendevamo meglio con quei dannati e quei penitenti,
a noi più vicini e comprensibili, che con questi
beati, con questi spiriti che ci risultano inevitabilmente
inafferrabili, paradossalmente oscuri nella loro essenza
splendente, troppo luminosa per i poveri occhi delle nostre
menti.
Abbagliante, agli occhi del corpo e a quelli dello spirito,
è sempre la purezza. E così la geometria perfetta.
L’ordine assoluto acceca, come un fungo di Hiroshima
che si espanda regolare dal sotto in su, da sinistra a destra,
avanti e indietro, ovunque. In quell’esplosione, la
nostra visione implode.
E i piccoli ritagli dattoliani di carta leggera si librano
come trasportati da tiepide correnti ascensionali, allo
stesso modo di quelle inconsistenti veline da rifascio per
gli agrumi che un tempo s'arrotolavano e s’incendiavano
dopo pranzo e, tutta la famiglia raccolta in breve estasi,
si guardavano balzare in aria come sospinte da magia. Quando
eravamo tutti più giovani, più ingenui e più
sereni.
È la serenità che cerchiamo, sempre, anche
qui e ora tra queste figure gialle e sfavillanti; è
la verità che vorremmo toccare, ma quella vera, davvero,
schiarita e rischiarata e chiarita esattamente dalla luce
invitta del vero. E invece, credenti e no, vaghiamo ancora
nelle penombre delle nostre incertezze, pur coscienti che
l’illuminazione è possibile, sì, ma
chissà dove e chissà quando.
Ferruccio Giromini |