Roma,
Niki de Saint Phalle, 4 novembre 2009-17 gennaio 2010
Forme sinuose che richiamano le divinità di tempi
lontani ma anche violenza, erotismo e inquietudine, questi
sono gli elementi principali che compongono l’universo
simbolico dell’opera di Niki de Saint Phalle (1930-2002).
La retrospettiva a lei dedicata presso il Museo Fondazione
Roma, conclusasi il 17 gennaio, è l’occasione
per parlare di un’artista che si è distinta
per aver rappresentato in anticipo, con sincerità
e coraggio l’universo femminile nei suoi aspetti più
gioiosi come in quelli più ombrosi.
La disposizione delle opere nelle sezioni tematiche ( “Le
origini”, “Spiritual path”, “Nana
power” “Il giardino dei tarocchi”) anziché
in quelle cronologiche vuole sottolineare la presenza di
alcuni concetti persistenti lungo il corso della sua carriera.
Sia nelle “nanas”, donne sinuose, galleggianti,
dotate di una forte sensualità, concepite a partire
dalla seconda metà dei sessanta, sia nelle sculture
ambientali dei decenni successivi persiste una leggerezza
che eleva le figure alla sacralità celeste (corpi
angelici sospesi in universi stellari) e terrena (la dea
della terra, l’albero della vita) richiamando le divinità
femminili pagane. L’artista, femminista quando ancora
di femminismo se ne parlava poco, soprattutto nell’arte,
ha precorso un filone di studi oggi molto seguito e discusso:
lo studio delle antiche società matriarcali e delle
divinità femminili del passato dove si distingue
l’archeologa lituana Gimbutas Marija.
La sala dedicata al “Giardino dei Tarocchi”
presenta disegni e progetti per il parco di Capalbio (realizzato
anche grazie al supporto del marito Jean Tinguely) concepito
come una fiaba al cui interno vivono draghi, streghe, tesori
e divinità, stilisticamente influenzato dal lavoro
di Gaudì.
Alla levità delle “nanas” però
si affianca una Niki critica e pungente soprattutto negli
anni sessanta, quando l’artista entra a fare parte
del movimento Nouveau Réalism dopo essersi fatta
notare per i suoi “tiri”. Durante questi anni
realizza opere dal sapore blasfemo e assemblaggi di oggetti
in cui prevalgono spesso metafore della violenza umana come
armi, teschi, simboli sessuali e religiosi, mescolati e
addossati in modo caotico, dove il colore stesso è
il risultato di uno sparo con il fucile su un sacchetto
carico di colore. Sono gli anni dell’assemblage, delle
poetiche dell’oggetto e degli happening. L’artista
si colloca nel mezzo del rinnovamento del linguaggio dell’arte
degli anni sessanta differenziandosi dai suoi colleghi soprattutto
per quanto riguarda i contenuti. Se infatti i Nouveaux Réalistes,
iniziano a porre l’attenzione, in maniera più
o meno critica, alla nuova società dei consumi e
agli oggetti inutili dando vita agli impacchettamenti e
alle accumulazioni, Niki de Saint Phalle accorpa oggetti
che sono portatori di significati profondi che non lasciano
spazio al dubbio o alla casualità (scarpette di donna
messe sotto a una pistola o crocifissi e feti/bambolotti
dalla forma di organi sessuali maschili). Sono le opere
in cui l’artista fa emergere il suo lato oscuro che
nel corso degli anni spesso riappare nella figurazione della
morte e nei simboli che la rappresentano.
Molte sculture vicine all’orizzonte pop, realizzate
con materiali vari e dai colori vigorosi, presentano in
realtà una critica feroce alla società di
massa, come la risposta personale all’immortale Marilyn
wharoliana (realizzata nel 1964): uno scoglio decadente,
dai capelli di stoppa, con delle bamboline incastonate sul
corpo, la cui femminilità costruita, esasperata,
emerge in tutta la sua negatività, riportandoci l’altra
faccia di uno stereotipo di donna sensuale e artefatto allora
come oggi ancora dominante.
Katia Almerini
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