A sei anni dall'ultima esposizione a lui dedicata nella capitale, una grande antologica celebra Edward Hopper (1882-1967), massimo esponente del Realismo Americano, prodotta e organizzata da Arthemisia Group in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York a cui si devono gli importanti prestiti.
Il Whitney Museum of American Art, come tutti i musei americani è sorto nel 1929 per iniziativa privata grazie alla scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney avendo come scopo la diffusione della conoscenza dell'arte moderna principalmente americana.
Infatti i due musei esistenti allora a New York, il Metropolitan e il MoMA, ignoravano gli artisti americani, probabilmente per quel senso di inferiorità che da sempre affligge la giovane America nei confronti della vecchia Europa che ha alle spalle un lungo passato culturale tra i più pregevoli del mondo.
Questa ingiustificata sfiducia venne scalfita, nel 1913, dall' "Armory Show", una grande mostra indipendente che fece conoscere agli operatori americani il modernismo europeo e le avanguardie artistiche internazionali, ma anche molti artisti americani fino ad allora snobbati da pubblico e critica, tutto ciò grazie al mecenatismo della Whitney, che proseguì con lasciti e donazioni anche dopo la sua morte (1942).
Oggi il Whitney Museum è una importante realtà culturale con una collezione permanente di più di tredicimila pezzi, attraverso i quali è possibile documentare l'intera storia dell'arte americana dei secoli XX e XXI.
Nel marzo del 2002, per la prima volta un centinaio di opere del nucleo più importante della collezione Whitney, fra le quali alcune di Hopper, uscì dai confini americani per giungere a Milano in un’ importante mostra, ‘New York Renaissance’, inaugurando con l'Italia un proficuo scambio culturale.
E forse non è un caso che la nuovissima sede museale di NY sia stata progettata da un architetto italiano, Renzo Piano.
Presenti in questa mostra romana, a cura di Barbara Haskell, curatrice della sezione dipinti e sculture del Museo stesso, supportata dalla collaborazione di Luca Beatrice, una sessantina di opere realizzate da Hopper tra il 1902 e il 1960, ritratti, paesaggi, schizzi, incisioni e acqueforti che denunciano la passata attività di grafico, olii, acquerelli, carboncini e alcuni disegni in bianco e nero dal taglio marcatamente fotografico.
Il sodalizio tra Hopper e questa importante sede museale inizia nel 1920, data della prima mostra dell’artista, e si prolungherà a tutto l’arco della sua lunga carriera ed anche oltre, visto che la vedova di Hopper, dopo la sua morte, ne donerà le opere (oltre 2500 pezzi) proprio al Whitney Museum.
Esposti gli acquerelli dipinti durante i molti soggiorni di Hopper a Parigi (il primo nel 1906), le vedute cittadine del decennio 50/60 ed una nutrita serie di dipinti famosi entrati nell'immaginario collettivo non solo americano, quali "Le Bistro or The Wine Shop", "South Carolina Morning", "New York Interior", "Second Story Sunlight".
Inaspettato, compare un grande olio su tela di 91,4 x 182,9 cm, "Soir Bleu" (il titolo è l'incipit di una poesia di Rimbaud), realizzato a Parigi nel 1914, dove si rintraccia l'influenza delle frequentazioni europee soprattutto dell'Impressionismo, del Surrealismo e del movimento fauve, un dipinto dall'insolita tematica dove una incongrua figura centrale, un pagliaccio triste, forse l'autoritratto dell'autore, è circondata da strani personaggi, grottesche caratterizzazioni simboliche di varia umanità incuranti della nostra presenza di osservatori, ciascuno assorto nei propri pensieri, che fumano sigarette spente guardando nel vuoto.
Presente in una sezione della mostra dedicata al rapporto tra Hopper e il cinema anche "House by the Railroad", la casa sulla ferrovia che diverrà location di uno dei più famosi film di Alfred Hitchcock, "Psycho”, dove abita l’inquietante protagonista proprietario del Bates Motel.
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È forse il dipinto che maggiormente sottolinea la stretta relazione tra la pittura di Hopper e molto cinema non solo di quegli anni, ma anche di tempi più recenti, e non solo per Hitchock, ma anche per Antonioni, Altman, Brian De Palma, Dario Argento, David Lynch, Wim Wenders, che in ogni suo film inserisce citazioni hopperiane e che dice “Quando guardo un quadro di Hopper, immagino sempre dove lui abbia piazzato la cinepresa”.
Un amore, quello del cinema nei suoi confronti, che Hopper ricambia omaggiandolo con un quadro del 1939, "New York Movie" quando dipinge una sala cinematografica piena di spettatori, al buio, intenti a guardare un film, fuori, in un corridoio adiacente deserto e illuminato, una giovane maschera in piedi appoggiata al muro. Forse è stanca, o annoiata, o triste, forse sta solo aspettando la fine dello spettacolo per accompagnare all’uscita gli spettatori, estraniandosi dal pubblico e dalla rappresentazione, un altro essere umano solo tra la folla, un'altra vita sospesa tra assenza e anonimato.
Un Hopper a tutto tondo, non solo pittore ma anche disegnatore 'precisionista', ci fa ripercorrere la provincia americana della prima metà del '900, i paesaggi rurali, gli spazi vuoti e silenziosi, le strade polverose e deserte, le ferrovie, le stazioni di rifornimento, i motel, ma anche scorci urbani dominati da ponti possenti, abitati da una moltitudine silenziosa di anime sole, un "sogno americano" riveduto e corretto, tra lontananza e nostalgia. |