Alla Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia grande retrospettiva dal titolo "Jean Dubuffet, l'arte in gioco. Materia e spirito 1943-1985” a cura di Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger.
Sono presenti 140 opere tra dipinti, disegni, grafiche, sculture, libri d'artista, composizioni musicali, poetiche e teatrali, provenienti principalmente dalla Fondation Dubuffet e dal Musée des Arts Décoratif di Parigi, oltre che da collezioni private europee.
Jean Dubuffet è noto per aver fondato, nel 1947, assieme ad André Breton, la ”Compagnie de l'art brut”, dove radunò le opere dell'attività creativa di "artisti loro malgrado" capaci di creare senza porsi finalità estetiche, ma spinti da una personale pulsione emotiva, un puro istinto che si avvale di un linguaggio primitivo ed incolto, uno stile semplificato, infantile, elementare, quello dei bimbi, degli ignoranti, dei malati di mente.
Individui socialmente inutili, sono tuttavia dotati, come ogni persona “normale”, di capacità espressive tanto più libere di esprimersi quanto più carenti di ciò che correntemente viene definita cultura, in una comunicazione immediata e sintetica di grande efficacia, in una pittura di grande originalità di forme, modi espressivi, tecniche, materiali, assemblaggi, dove il colore è sommariamente trattato, le linee sono casuali ed elementari, le tematiche indecifrabili, nel nome della più assoluta spontaneità ed immediatezza, sia contenutistica che formale.
Affascinato da quella che lui chiamò Art Brut, le posizioni anticulturali, come si evince dalla mostra, furono da sempre il filo conduttore del percorso di questo artista irrequieto che non voleva lasciarsi soffocare dalla cultura tradizionale per andare alla ricerca di sentieri inesplorati inventando nuove tecniche e utilizzando materiali inusuali.
Il percorso della mostra si articola in tre sezioni: la prima presenta opere realizzate dal 1945 al 1960 (quali “Mirobolus”, “Macadam”, “Matériologies”), la seconda espone lavori eseguiti nel periodo 1962/1974 (il ciclo “L’Hourloupe”, derivato da uno scarabocchio tracciato durante una telefonata), la terza ospita opere datate tra il 1976 e in 1984 (“Théatres de mémoire” e “Non-lieux”).
In mostra anche i “libri d’artista”, con le sperimentazioni sul linguaggio dall’artista definito "jargon”, un gergo fonetico di sua invenzione basato sulla pronuncia del linguaggio popolare con divertenti esiti ludici.
Presente uno spazio dedicato alla musica, a cui Dubuffet si interessò dagli anni ’60 con sperimentazioni condotte assieme a Asger Jorn, artista del gruppo Cobra, producendo “suoni inediti” con l’utilizzo di un gran numero di strumenti di tutti i tipi, sia occidentali che orientali che trovati o inventati, per una musica liberamente improvvisata, registrata, montata e mixata di cui non esiste alcuna partitura.
Allestita anche una sezione che ospita 30 lavori di artisti dell'Art Brut provenienti da collezioni private svizzere, dal Gugging Museum di Vienna, dalla “Collection de l’Art Brut” ospitata a Losanna nel Chateau de Beaulieu, oggi comprendente 60.000 pezzi e partita inizialmente con 5300 opere donate da Jean Dubuffet.
Fra gli artisti in mostra Aloïse, artista svizzera affetta da schizofrenia, Scottie Wilson scozzese di Glasgow poi emigrato in Canada, analfabeta, che iniziò a disegnare a 40 anni, Walla, austriaco di Klosterneubourg, presso Vienna, paziente di un ospedale psichiatrico in seguito ospite della “Haus der Künstler ”, laboratorio artistico gratuito per persone con disturbi psichiatrici intitolato a Maria Gugging.
La struttura fu creata a margine della Gugging Psychiatric Clinic nel 1981 grazie alla volontà di un giovane psichiatra, Leo Navratil, che conobbe Dubuffet, ebbe contatti anche con Hans Prinzhorn, psichiatra psicoterapeuta dell' Università di Heidelberg con interessi sia scientifici che artistici, ed organizzò, per questi artisti speciali, molte mostre nelle gallerie austriache.
La “Collection de l’Art Brut” è oggi conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo, visitata anche da personalità artistiche di rilievo quali David Bowie che diceva di averne tratto ispirazione per molte sue composizioni musicali, e Brian Eno che lo accompagnava a contemplare per ore le opere esposte.
La mostra ruota attorno alla poliedricità di un artista ecclettico insieme colto e primitivo, intellettuale ed istintivo, coerente ed imprevedibile, inventore di innumerevoli tecniche, in rapporto simbiotico con la materia, dove si riscontrano echi surrealisti, cenni astrattisti, richiami all'informale, attratto dalle manifestazioni grafiche dei popoli primitivi, dalla produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada, dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi, persone prive di formazione culturale collocati ai margini della società, autodidatti, estranei ai circuiti dell'arte tradizionale.
Solo calandosi in questo mondo degli ultimi, nel loro immaginario sconcertante in cui la tensione emotiva si accompagna ad una creatività istintiva in grado di rompere i contatti con la realtà e trovare nella follia uno stato mentale favorevole alla creazione artistica, Dubuffet fa tacere la ragione, la cultura, la conoscenza, l'accademia e riesce ad “aprire il passaggio alle voci che vengono dagli strati sottostanti”, superando ogni convenzione sulla materia, il segno, la pittura, la forma, liberandole dall’obbligo del significato e trasformandole in una grande, caotica, visionaria narrazione.
La mostra può essere occasione per ricordare che Dubuffet fu antesignano di tutta quella che sarebbe diventata la cultura del graffitismo metropolitano, un’arte di strada senza regole che proviene dal basso e, più recentemente, della "Outsider Art”, anch’essa rivolta al mondo dei disadattati, i malati mentali, i carcerati, i ritardati intellettivi per i quali la patologia psichiatrica può essere vista come potenziatrice delle capacità percettive e creative di chi ne è portatore.
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