Inchiostri simpatici
Presentazione di Ferruccio Giromini
Per cominciare, chiariamo subito: non Frediani ma Fedriani.
È il comune errore, detto e stampato, che ha tormentato
il buon Sergio (una volta addirittura Fedrignani!) per tutta
la vita vita troppo breve, a detta di tutti. Scomparso
a soli cinquantasei anni, per un male veloce, ha lasciato
in eredità grandi rimpianti per la sua presenza di
spirito dolcemente poetica; sì, sempre tranquillo e
sorridente, certo, però quando gli sbagliavano il nome
ci restava davvero male ogni volta (e un pochino lo capisco
anch'io, eccome, dall'infanzia rassegnato a contrapporre ad
ogni incauto Girònimi, Geromìni, Giròmini
uno stentoreo e finalmente corretto Giromìni). Ebbene,
poteva sembrare impossibile a vedersi, eppure anche il solare
Sergio Fedriani si arrabbiava, e non solo per il cognome storpiato.
Ma per le storture innumerevoli del mondo. Era un puro, e
ogni tipo di ingiustizia, anche piccolissima, lo disturbava
nel profondo. Era un utopista, com'è giusto che sia
un artista all'inseguimento dei suoi sogni, e qualsiasi granellino
negli ingranaggi della realtà lo offendeva profondamente,
per cui ne faceva quasi una questione personale. Era un buono,
perciò proprio non capiva la cattiveria, no, davanti
ai suoi effetti devastanti non riusciva davvero a concepirne
le cause.
Tutto ciò traspare, è evidente, nei suoi disegni.
Sergio disegnava, da sempre, tanto, sempre, perché
era il suo modo di vivere e affrontare la realtà. Cambiandola.
Per renderla meglio vivibile.
Laureato in architettura, ha esercitato la professione per
poco tempo, preferendole presto gli incerti radiosi dell'arte.
In ciò autodidatta, ha cominciato a metà degli
anni Settanta con disegni a china, bianconeri di lontana derivazione
picassiana: corpi di donne, lunghi capelli, angoli di stanze,
finestre, nuvole, cipressi lontani, colline morbide
Il suo tratteggio, ordinato e a volte incrociato, lo ha portato
presto a incidere le lastre di metallo sperimentando l'acquaforte,
la puntasecca, l'acquatinta. I suoi eclettici interessi d'artista
lo hanno spinto ad affrontare soggetti specificamente artistici,
ripercorrendo e reinterpretando con ironia leggerissima la
pittura da cavalletto, gli sguardi incrociati tra il pittore
e la modella, le pratiche dell'en plein air, e pure il gusto
della reinvenzione surrealista della realtà. Da qui
allo sbrigliamento della fantasia tipico del disegno umoristico
il passo era davvero breve. E lui lo ha compiuto naturalmente,
quasi senza accorgersene. Fino a diventare, in maniera del
tutto naturale, un esponente di spicco della grafica umoristica
italiana del secondo Novecento.
È così che, accanto ai molti amati maestri
dell'incisione e della pittura vengono a galla, oltre
ai tagli inventivi di Picasso, anche i silenzi di Morandi,
il paesaggismo dei Macchiaioli, la libertà visionaria
di Magritte, qualche suggestione metafisica di De Chirico,
la grandiosità delle rovine di Piranesi
il pantheon personale di Sergio Fedriani comprende pure numerosi
maestri del disegno "umoristico" internazionale
(mettiamo la parola tra virgolette, per evidenziare che bisogna
dedicarle un'attenzione speciale, in quanto c'è chi
considera il termine in modo restrittivo e quasi denigrativo,
mentre sappiamo che viceversa il genere è arduo, a
volerlo esercitare come si deve, e peraltro è perfettamente
in grado di attingere a vette autonome sublimi).
Chi non è di primo pelo e ha vissuto quegli anni ricorda
che a partire dal 1965 aveva preso ad occhieggiare nelle edicole
italiane l'innovativa rivista "Linus", ogni mese
prodiga di proposte visive e intellettuali tutte assolutamente
sorprendenti e stimolanti. L'adolescente e poi giovane studente
di architettura Sergio, tra la fine degli anni Sessanta e
i primi Settanta, su quelle pagine intelligenti ha così
modo di scoprire un intero mondo di creativi, molti dei quali
campioni assoluti di umorismo grafico. Pur apprezzando come
si conviene la delicatezza penetrante dei Peanuts di Charles
Schulz, la garbata causticità del Pogo di Walt Kelly,
il lunare teatrino dell'assurdo del Krazy Kat di George Herriman,
l'irridente provocazione di Georges Wolinski, le irresistibili
fissità sospese di Copi, è però soprattutto
sull'umorismo di poche o senza parole che si fissa l'attenzione
del futuro dessinateur d'humour. Se per l'uso dell'acquerello
diluito e sognante, che gli darà poi la fama più
vasta e completa, il dichiarato nume di riferimento è
il belga Jean-Michel Folon, invece per il disegno in bianco
e nero, in punta di pennino e in piccolo formato, sono altri
tre i nomi cardinali della formazione fedrianea: l'ebreo rumeno-statunitense
Saul Steinberg, l'ebreo polacco-francese Roland Topor e l'americano
atipico Edward Gorey. Del primo, dunque, ama il gusto per
la boutade puramente grafica, dove il segno si anima, si fa
oggetto, anzi si fa soggetto. Del secondo, invece, adotta
lo stile veloce di tratteggio istintivo, schizzato, e il gusto
anche ridanciano e un po' beffardo della sfida visiva. Del
terzo, infine, predilige in molti casi la compostezza estetica
e la sospesa eleganza metafisica.
Ecco, mescolando con lenta attenzione questi tre ingredienti,
prende forma e sostanza l'autonomo sense of humour di Fedriani:
ora delicato, ora birichino, ora ammiccante, sempre sorprendente.
E a questo punto ancora tre elementi costitutivi ne vanno
sottolineati. Il primo è la cultura di fondo, visiva
ma non solo, cui rimandano i mille disegni che compongono
questa personale multiforme "taccuineide", infarciti
come sono di rimandi e citazioni a nozioni e concetti ora
letterari e ora storici, ora scientifici e ora geografici,
ora matematici e ora tecnici, tutti filtrati dalla lente sorridente
del nostro ineffabile pescatore e distributore di sorprese.
La seconda componente è una fondamentale, per non dire
preponderante, "francesità" dell'atteggiamento
espressivo, ossia una predilezione formativa per le atmosfere
un po' nevrotico-parigine di Balzac, Daumier, Brassens, Simenon,
Juliette Gréco, Truffaut, Aznavour e un po' luminoso-provenzali
di Cézanne, Matisse, Charles Trenet; predilezione evidenziata
anche dalla titolazione francofona di molti disegni. La terza
caratteristica è la propensione dichiarata per il ricorso
all'artificio affettuosamente retorico del calembour, parola
francese non a caso che si traduce di solito
come "gioco di parole" ma che per Fedriani diventa
un gioco incrociato tra le parole e le immagini, dove una
si trasforma a sorpresa in un'altra senza però tradire
se stessa. Cos'altro sono l'ombrello punto interrogativo,
l'orecchio manico di tazzina, le chiavi-freccia che cercano
di centrare la serratura-bersaglio, la goccia-fiamma che non
può essere che una "bugia", il proiettile
col copricapo che non può essere che una "bombetta"?
Tutte acrobazie verbovisive per suscitare altrettanti irresistibili
sorrisi sotto i baffi: sia i veri baffi biondi dell'autore,
sia i baffi veri e finti, magari indossati appunto per ridere,
i baffi ideali del suo pubblico sorridente.
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