La fotografia è
l'unico "linguaggio" di valenza universale, compreso
in ogni parte del mondo da tutti gli individui appartenenti
alle più diverse culture ed è un mezzo straordinario
per assicurare la "presenza" in un luogo, rappresentando
l'occhio attraverso il quale "noi diventiamo testimoni
oculari dell'umanità e della disumanità degli
uomini".(Helmut Gernsheim, "Creative Photography",
1962).
La
fotografia nasce come tecnica e strumento per una riproduzione oggettiva della
realtà, come mezzo per registrarla e produrre una prova documentale di
tutto ciò che è visibile, dimostrazione concreta della vera esistenza
di ciò che è riprodotto, dell'indubbio e reale accadimento di un
evento, della genuina credibilità di una testimonianza. In verità
si potrebbe molto discutere sulla (presunta) oggettività-realtà
dell'immagine fotografica, dal momento che la riproduzione dell'immagine di qualunque
cosa finisce per privarla di caratteristiche intrinseche ed indispensabili alla
sua stessa essenza, il peso, l'odore, la profondità, il tempo, la sonorità
e mentre dematerializza, disincarna, virtualizza il soggetto fotografato,
lo rende privo di senso e perciò simulacro di una oggettività pura
che non esiste.Tuttavia il concetto di fotografia=realtà oggettiva è
rimasto saldo ed immutato per anni, ed è ancora oggi talmente strutturato
nel nostro patrimonio culturale che siamo portati a ritenere vera qualunque immagine
del mondo fotografato, anche se ormai tutti sanno che con il computer e con le
tecnologie digitali si può manipolare più o meno tutto, facendo
così decadere sia la veridicità dell'immagine fotografica, in quanto
risultato di una serie di operazioni artificialmente influenti sull'esito finale,
sia la sua caratteristica di prodotto "d'autore", in quanto non necessariamente
attribuibile ad un'unica persona (esiste lo specialista che scatta, quello che
elabora, quello che ritocca ecc....). In epoca cibernetica, in cui le nostre
capacità percettive si stanno rapidamente modificando per adeguarsi ad
un nuovo concetto di realtà a fruizione eminentemente visiva, è
d'obbligo dubitare di ciò che si vede, è fondamentale essere consapevoli
che la realtà può essere manipolata, alterata, artificializzata,
è indispensabile dotarsi di un nuovo atteggiamento mentale anche acutamente
critico nei confronti dei mezzi digitali e sapere che le immagini che ci vengono
quotidianamente sottoposte non sono necessariamente coerenti con la realtà,
non sono scontatamente vere, ma spesso radicalmente ed intenzionalmente alterate. Alla
luce della facilità con cui il mezzo digitale permette la manipolazione dell'immagine di un mondo che, per ragioni varie e complesse, tende verso una
progressiva perdita dei contatti con la realtà fisica, perdita che le tecnologie
digitali assecondano quando non incentivano, si impone per quanti si occupano
di immagine la definizione di un codice comportamentale e deontologico, nel nome
di un'esigenza di carattere morale verso la quale si sta attuando oggi una progressiva
e spontanea sensibilizzazione. Infatti alcune agenzie che si occupano di reportages
fotografici con intenti soprattutto informativi e documentaristici, come ad esempio
la Associated Press che interessa circa 1500 giornali di tutto il mondo, si sono
dotate di un codice etico scritto che assicura la genuinità delle immagini
fornite, in nessun modo alterate se non per migliorarne alcuni parametri tecnici
(contrasto, luminosità, ecc....): "The content of a photograph
will NEVER be changed or manipulated in any way". Parlando di
rivoluzione digitale è certamente riduttivo limitarsi soltanto al campo
tecnologico, perchè essa sta configurando un nuovo modello sociale derivato
da quello che Philippe Queau chiama "cyber-bang", in cui il virtuale
prenderà sempre più il posto della realtà, sostituendo ad
un universo reale ed imperfetto un modello ideale, perfetto, depurato e "pulito",
processo già in atto, secondo Jean Baudrillard, egli stesso fotografo con
più o meno palesi finalità artistiche, che denuncia: "Il
virtuale ha ucciso la realtà. Senza lasciare tracce". In effetti,
il discorso sul trattamento digitale dell'immagine ci pone davanti ad una realtà
del tutto nuova, per la quale non ci sono esperienze precedenti su cui parametrarsi,
e ci obbliga innanzitutto a sottoporre a nuova riflessione critica il concetto
stesso di fotografia, ancora anacronisticamente e tradizionalmente concepita,
secondo la nostra cultura occidentale che si riallaccia al figurativismo rinascimentale,
in funzione del concetto della verosimiglianza, risultato di un particolare procedimento
fotochimico che congela, preservandolo per i posteri, un frammento di realtà
con il massimo del verismo. Seppure superata nei fatti, è ancora
largamente diffusa questa concezione limitativa, in realtà più variegata
di quanto possa sembrare, perchè se Roland Barthes scrive:"Più
che le altre arti, la fotografia fornisce una presenza immediata del mondo ...
Spesso è stato detto che sono i pittori ad avere inventato la fotografia
... Io dico di no: sono stati i chimici ...." , deponendo per la prevalenza
dell'aspetto tecnologico, è tuttavia indubbio che anche nella realizzazione
di una fotografia tradizionale, intendendo con ciò non digitale, intervengono
una serie di scelte soggettive su varie opzioni (luce, inquadratura, contrasto
ecc...) che prevedono la presenza di un autore, l'intervento dell'umano intelletto
e, seppure in termini diversi ed in misura certamente minore, l'attuazione di
una qualche manipolazione (per esempio in fase di stampa) suggerita dalla valutazione
personale del fotografo. E' sempre esistito, quindi, un margine di intervento
entro il quale il fotografo poteva personalizzare il risultato ed è anche
questo che, in passato, ha fatto la differenza, ma oggi i mezzi digitali rendono
la possibilità di manipolazione tanto ampia da giungere ad un prodotto
che ha ben poco dell'originale, che può essere anche migliore, ma irrimediabilmente
diverso da esso: viene a mancare la presunzione di veridicità, e bisognerà
farsi consapevoli che ormai non basta più aprire gli occhi e vedere un'immagine,
bisogna saperla guardare anche criticamente, esercitando volontariamente l'atto
della visione, all'interno di un percorso di apprendimento finalizzato allo sviluppo
delle nostre capacità visuo-cognitive. Scrive il neurobiologo Semir
Zeki, teorico di una nuova scienza detta neuroestetica, che indaga la base neurologica
dell'esperienza estetica e studia i processi attraverso i quali il cervello umano
esplica le sue capacità percettive, applicate nello stesso modo sia all'osservazione
dell'arte visiva che all'indagine della realtà.: "Negli ultimi
due decenni la neurologia ha compiuto scoperte stupefacenti sul sistema visivo
cerebrale. Ora non è più possibile separare il processo della visione
da quello della comprensione, come un tempo facevano i neurologi", massima
oggi, davanti alle trappole visive che la digitalizzazione delle immagini frappone
tra i nostri occhi e il reale aspetto del mondo che ci circonda, un mondo in cui
il messaggio veicolato dall'immagine fotografica fluttua sempre più ambiguamente
tra la manipolazione e la mistificazione, spostando il problema etico dal contenuto
dell'immagine alla sua rappresentazione.
link:
Le realtà bugiarde della fotografia
La soggettività dell'obiettività
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