Il ‘900 ha consolidato un passaggio
di consegne epocale, trasferendo dalla pittura alla fotografia
l’incarico della fedele riproduzione del reale, ma
ciò che, all’inizio, pareva un cambio di ruolo
certamente portatore di grandi sconvolgimenti, ma sicuramente
prevedibile nei suoi rapporti di causa ed effetto, ha finito
poi per caricarsi di una serie di impreviste problematiche.
L’attenzione che la cultura dell’ ‘800
e del primo ‘900 riservava all’aspetto fenomenologico
della realtà e alla sua fisicità, sembrò
aver trovato nella fotografia il mezzo più adatto
a soddisfare una sorta di estetica della fenomenologia secondo
la quale cogliere intuitivamente, se non scientificamente,
l’ “essenzialità” dei fenomeni.
Almeno all’inizio parve quindi che fotografia non
potesse significare altro che realismo, basato sulla perfezione
tecnica e stilistica della foto (concetto che riprenderà
la scuola di Weston e Adams) perfettamente a fuoco, perfettamente
inquadrata, stampata e montata. Ciò assecondando
la principale frattura tra le due discipline, pittura e
fotografia, rappresentata dalla modalità esecutiva,
che nella pittura richiede una capacità manuale sostituita
nella fotografia dall’abilità tecnica e che
mentre nella pittura tollera l’imprecisione riproduttiva,
nella fotografia esige la massima precisione ed imparzialità.
Questo motivo ha relegato per molto tempo la fotografia
in un territorio ambiguo, bloccandola nella condizione di
una non meglio definita ‘non-arte’, anche per
il fatto che ogni criterio di giudizio su di essa è
stato a lungo desunto secondo i parametri propri della pittura
e quindi incongrui.
Acclarata la sostanziale impossibilità di replicare
oggettivamente il reale senza un più o meno marcato
intervento interpretativo, rivelatasi la fedeltà
realistica della fotografia del tutto illusoria, essa ha
finito per rappresentare l’esatto contrario del concetto
affibbiatole alla nascita, generando un paradosso al quale
risale la causa della crisi di identità che attraversa
oggi. Tra la sua originaria natura di strumento di riproduzione
per eccellenza e l’impossibilità sostanziale
di esserlo, tradendo la consegna iniziale la fotografia
compie infatti un inevitabile processo di simbolizzazione
del reale, non essendo in grado di riprodurre un evento
nella sua interezza se non depurandolo delle sue attribuzioni
essenziali, del suo divenire, se non estraendone, appunto,
i caratteri simbolici, se non compiendo quello che Massimo
Cacciari definisce un vero e proprio ‘atto di ri-produzione
e di ri-creazione della realtà’, nel senso
letterale dei termini.
E’ un percorso non molto diverso da quello seguito
dall’arte moderna quando liberata, grazie alla fotografia
che la surroga, dalla funzione descrittiva e dalla schiavitù
della forma, riflette su sé stessa, sulla sua identità,
sulle sue possibilità, ne accetta i limiti e da una
severa autocritica ricava l’imput per avventurarsi
nell’esplorazione di nuovi campi di indagine, volgendosi
all’analisi della realtà meta-fisica, all’interiorità
dell’animo, alla profondità delle passioni.
Superata l’esigenza di verosimiglianza, l’arte
inventa tecniche e forme non radicate nella realtà
per parlare il linguaggio antinaturalistico dell’astrattismo,
dell’informale, del concettuale ecc.
Cosicché, conquistando un nuovo spazio espressivo
nel quale collocarsi non già come interpretazione
del reale ma come distanziamento da esso, l’arte moderna
ha sancito definitivamente il suo distacco dagli eventi
naturali, facendo di questo distanziamento una delle sue
caratteristiche principali.
Almeno in teoria queste strade non sono precluse alla fotografia,
e forse possiamo aspettarci che essa segua le orme dell’arte
visiva che, come è spesso accaduto, ha compiuto una
fuga in avanti tracciando una nuova via.
Verso la quale viene oggi un importante incoraggiamento
dalla scoperta delle tecniche digitali, estremamente duttili
e diversificate, all’interno delle quali ogni fotografo
può trovare modi di utilizzo flessibilmente adeguabili
alle proprie esigenze.
Ogni interazione tra uomo e macchina
ha sempre come risultato una interpretazione
tecnica che non si discosta molto dalla interpretazione tout court che compie l’arte sulla realtà per
la dose di soggettivismo che comporta la scelta di una tecnica
piuttosto che un’altra se non l’invenzione di
una tecnica nuova (leggi)
Paradossalmente, nonostante i progressi e le sempre nuove
scoperte tecnologiche, la fotografia ha progressivamente
perduto la reputazione di ‘scientificità’
(=obiettività) che le è stata attribuita
in origine per diventare una forma di interrogazione esistenziale
che rifugge da risposte e definizioni concluse.
Ne è convinto Gianmarco
Chieregato, che in una sua mostra di prossima programmazione
(26 febbraio/15 marzo), “Fuori dall’ombra”,
gioca proprio sull’aspetto demiurgico dell’azione
del fotografo che, con quel prodigio alchemico che si chiama
fotografia, può far convergere nel ritratto, filo
conduttore della sua carriera e tema centrale della mostra,
un contesto spazio-temporale che ne viene materialmente
escluso, ma che in qualche modo l’immagine è
in grado di richiamare come suggestione, imponendo all’osservatore
una elaborazione mentale dell’esperienza puramente
visiva.
“Una scrittura di luce”, così
definisce la fotografia Nino Migliori, e se ha ragione chi
ha detto che nella pietra grezza già dorme la forma
compiuta che lo scultore libera con il suo gesto, è
vero anche che nel buio è già nascosta l’immagine
alla quale la fotografia dà vita portandola alla
luce, fuori dall’ombra.
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