Riconosciuto alla ‘art moyen’ il diritto di cittadinanza nell’universo delle arti visive, si inaugura un nuovo modo di relazionarsi con l’oggetto artistico in un rapporto in cui passano in secondo piano l’abilità e l’attività manuale (quelle doti che permettevano a Canova di indirizzare il suo scalpello sulla superficie del marmo o a Leonardo di sfumare nel suo tipico chiaroscuro i volti dei suoi ritratti) a favore della capacità di intuizione e, grazie alla tecnica, della velocità di esecuzione. Questo concetto si inquadra nel rapporto sempre più stringente “tra la scienza e l'estetica artistica. Personalmente ritengo – afferma Paolo Manzelli - che il rapporto tra scienza ed arte sia un motivo dominante della innovazione nel mondo contemporaneo in quanto è capace di rapportare creativamente l'uomo allo sviluppo tecnologico moderno nel dare espressione a nuove modalità e mezzi di comprensione “.
Ma se la fotografia è arte, dove risiede la sua componente artistica? Nella scelta dei modi (anche tecnici) della rappresentazione o nell’immagine che ne deriva? Quanto merito va a quel volto ritratto, quello spazio evocato, quell’attimo fermato e quanto a quel piccolo pezzo di carta sensibile, quel file digitale che li rende visibili?
L’uso sempre più diffuso e incondizionato dell’immagine fotografica, il suo linguaggio visivo apparentemente alla portata di tutti, la sua semplicità erroneamente interpretata come facilità fanno sì che, mentre nessuno si affretterebbe a munirsi di pennello e scalpello dopo aver visitato una mostra di Michelangelo, molti, usciti da una mostra di fotografia, rispolverino il proprio apparecchio e si mettano alla prova, dicendosi ….. : “lo potevo fare anch’io”.
In realtà non è vero, non ci potrebbe mai essere identità del risultato perché la fotografia si caratterizza per parametri sostanzialmente irripetibili: il luogo, l’ora, l’incidenza della luce, la brevità dell’attimo in cui tutto si decide, l’espressione di un volto che l’attimo dopo cambierà. Si può copiare alla perfezione un dipinto di Monet, ma sarebbe impossibile replicare identicamente una foto qualsiasi, quand’anche a scattarla fosse la stessa persona, nello stesso luogo, alla stessa ora, nella stessa stagione.
“La fotografia è un'azione immediata; il disegno una meditazione”, sintetizza Henri Cartier-Bresson , mentre la pittura vive al di fuori ed oltre il sistema storico, sociale, culturale, ambientale, temporale, climatico in cui viene prodotta, la fotografia esprime inevitabilmente un “qui e ora” unico ed effimero indissolubilmente legato al presente dove vige contemporaneità e complicità emotiva tra fotografo e fotografato.
E se ci lascia abbastanza indifferenti conoscere l’esatto nome e cognome della Gioconda o sapere che la dama con l’ermellino è in realtà Cecilia Gallerani, non sapere nulla della fanciulla afgana di quella celebre foto di McCurry, Sharbat Gula, una ragazzina pashtun ripresa nel campo profughi pachistano di Nasir Bagh e pubblicata sulla copertina di National Geographi nel giugno 1985, un po’ disturba sia noi che l’autore. Che infatti l’ha cercata e ritrovata, dopo diciassette anni da quello scatto, e l’ha di nuovo ritratta.
“La cosa migliore di una fotografia – diceva Andy Warhol – è che non cambia mai, anche quando le persone in essa lo fanno.”
La frase sarebbe perfetta se riferita alla pittura, ma contestabile in fotografia, dove il ritratto induce ad immaginare un seguito: sappiamo che quella persona non sarà così per sempre, che cambierà, che invecchierà e a differenza della Gioconda, che da secoli ci sorride ambiguamente nello stesso modo, la fanciulla di McCurry non sarà mai più quella della foto. Si accende così l’indefinibile desiderio di voler sapere qualcosa di più, di sapere ‘come è andata a finire’, perché se è pur vero che la fotografia ferma l’attimo, è anche vero che il prima e il dopo di quell’attimo rappresentano in realtà l’elemento più significativo, seppur mancante poiché la foto ce ne priva: lo scorrere del tempo.
Una volta compiutasi, la rivoluzione preconizzata da Walter Benjamin si è diffusa ben oltre i limiti della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte
“…… la perdita della esclusività nel processo di produzione delle immagini da parte della pittura e della scultura […] è senza dubbio alla radice dei tentativi di recuperare la vita, ciò che è irriproducibile tecnologicamente, come una componente dell’arte.» (José Jiménez, Imágenes del hombre. Fundamentos de Estética, Madrid, Tecnos, 1986 ), recupero che l’arte moderna attua con nuovi linguaggi quali happening, body art, land art, fluxus, il cinema e, appunto, la fotografia, arte che accade o, quanto meno, che racchiude l’accadere.
La fotografia ha diversità profonde rispetto a qualunque altra forma d’arte persino in campo giuridico dove, mentre nessuno deciderebbe di tutelare un quadro di Cezanne sulla base di altri criteri che non siano il semplice fatto che è stato dipinto da Cezanne, poiché in pittura il valore dell’opera è legato al talento dell’autore, in fotografia si ricorre ad un criterio più oggettivo concentrato di volta in volta sulla singola opera più che sul suo autore.
Oggi le leggi vigenti in materia di opere dell’ingegno sottopongono alla disciplina del diritto d’autore le opere fotografiche di carattere creativo, il che in un certo senso non fa che rinviare il problema alla definizione non facile di ciò che si intenda per ‘creatività’.
Che viene individuata secondo la giurisprudenza nella scelta sia dei parametri tecnici della macchina, sia, soprattutto, nell’interpretazione del soggetto secondo scelte personali del fotografo quali i giochi di luce, i colori, l’ambientazione, confidando, abbastanza vagamente, nella sua sensibilità e capacità di produrre effetti e suggestioni che vanno oltre il comune senso della realtà fotografata. Va detto che attualmente si rileva la tendenza ad abbassare i requisiti di tutela delle opere dell’ingegno, in una società che modernamente privilegia la libera diffusione ed il libero accesso alla cultura e all’informazione attraverso ogni media e rende sempre più difficile e meno necessario stabilire che cosa si può definire ‘arte’ per legge. |
Queste divagazioni scaturiscono dal confronto fra una foto, definibile artistica o creativa, di un soggetto scelto dalla sensibilità del fotografo per suggerire un messaggio, in questo caso eseguita da Gianmarco Chieregato, ed una foto assai simile per quanto riguarda l’immagine, la posa, la scelta spaziale, raffigurante una statua di Amleto Cataldi: neppure si sa chi l’ha scattata e del resto non avrebbe alcuna importanza, il suo scopo è quello di documentare una scultura nel suo reale aspetto esteriore, senza alcun commento, se c’è un messaggio non viene dalla foto, ma dal soggetto fotografato.
In cosa differiscono queste due immagini? La prima è arte, la seconda no? E in tal caso perché? L’intenzione di chi scatta è sufficiente a discriminare un risultato ‘artistico’ da un altro puramente documentale? Oppure, se la differenza è determinata dal soggetto raffigurato, come può, paradossalmente, la foto di un soggetto qualunque essere arte mentre la foto di un’opera d’arte non lo è?
In quale precario equilibrio si rapportano la scelta ideologica, sia tecnica che concettuale, e la necessità di esprimere il preconcetto ed illusorio realismo dell’immagine preteso dall’osservatore?
Inadeguata a creare l’Assoluto come invece fa l’Arte, la fotografia si conferma arte ambigua ed impura che vive, come dice Jackie Wullschlager, “tra il museo e il chiosco dei giornali, lo studio e la strada, l’eternità e l’effimero”, nutrendosi di dubbi. |