La fotografia nasce come immagine monocromatica, quindi ad un solo colore con la relativa scala di sfumature, sia esso il b/n, il grigio/verde della ferrotipia, il blu della cianotipia, il seppia dell'estratto di un mollusco ecc., una scelta obbligata puramente tecnica, dato che inizialmente era questo l'unico modo possibile in cui realizzare l'immagine fotografica e l’unico ‘trucco’ per colorarla consisteva nell’intervenire direttamente sui dagherrotipi, con risultati 'pittorialistici' che talvolta impiegavano anche la finitura ad olio per esiti estetici prettamente ottocenteschi.
Fino a che, nel lontano 1904, nasce ufficialmente la fotografia a colori ad opera dei fratelli Auguste e Louis Lumière che inventano le lastre Autochrome (la cui produzione parte nel 1907), anche se per l'era della fotografia a colori modernamente intesa bisogna aspettare il 1935, quando compare la pellicola per diapositive Kodachrome e, nel 1936, la pellicola Agfacolor.
Ma ancora oggi, quando ormai la tecnica del colore si è notevolmente perfezionata e diffusa, permane largamente condivisa anche tra gli addetti ai lavori la vaga convinzione che il bianco e nero (nonché innumerevoli sfumature di grigio) rappresentino la faccia 'artistica' della fotografia, unitamente ad un altrettanto imprecisato concetto di 'verità', delegando più o meno esplicitamente al colore una certa componente edonistica e limitatamente decorativistica.
“Il bianco e nero è come una struttura architettonica che rispecchia le fondamenta del nostro essere, del nostro sentire. Potremmo paragonarlo alle travi portanti di un edificio. Evoca l'essenza dell'esperienza vissuta. E questo è un aspetto di fondamentale importanza. Ma c'è di più: sul piano emotivo è, a mio parere, molto più intenso del colore. Non ne sono sicuro, ma credo che tragga la sua forza dalla nostra percettività visiva. Il colore si ferma all'apparenza delle cose. Può essere veramente bello, delicato, meraviglioso a suo modo, ma è totalmente diverso.”, così Rodney Smith, fotografo surrealista con chiari richiami a Magritte.
Tuttavia la pregiudiziale su una supposta maggior verità o veridicità del b/n sembrerebbe frutto di un artificio autoindotto, perché, al contrario, tutta la realtà captata dai nostri occhi è a colori, o almeno così appare alla nostra esperienza percettiva.
A meno che non si faccia scaturire la riflessione di Smith da un’intuizione molto più profonda e non del tutto consapevole che va oltre la semplice ‘percettività visiva’, prendendo coscienza di come il b/n più fedelmente restituisca l’immagine di “un universo che di per se stesso non è colorato ed inoltre è silente, inodoro ed insipido” ("Intelligenza visiva: percezione del colore", Paolo Manzelli), affidandoci al nostro cervello ancestrale il quale sa che “nel mondo esterno i colori non esistono; il colore è di fatto una un’invenzione sensoriale del cervello…. sappiamo oggi che ogni uomo o donna realizza una propria personalissima percezione delle sfumature di colore.”("Percezione dei colori e cervello", Paolo Manzelli) in presenza di molteplici, soggettive e diverse capacità creative, essendo la visione un processo costruttivo personale
Nel quale interviene la nostra intelligenza emotiva che sa molte più cose di quante crediamo e sa anche che “l’ occhio è un recettore sensoriale che si limita ad inviare i segnali di variazione della energia luminosa che il cervello trasforma in sensazioni colorate.”, partendo da colori acromatici (bianco, nero e varie gradazioni di grigio).
Efrem Raimondi, fotografo, dice: "ci sono arti e/o mestieri che nascono in un modo. E non ce n’è, resta attaccato malgrado gli sforzi. Una matrice genetica direi …… così la fotografia. Per fortuna aggiungo. Che a differenza della tv ha saputo conservare la sua impronta primordiale. e anzi espanderla, il b/n appunto….".
Il DNA della fotografia, insomma, sarebbe b/n.
Gli studi sulla visione acromatica di André Bazin, applicati essenzialmente alla cinematografia, affrontano proprio il ruolo del colore e di come esso possa influenzare il nostro modo di vedere il reale attraverso le immagini e quali riflessioni determini l’uso del b/n e quali del colore, partendo dal principio di origine culturale che il segno fotografico istituisca un rapporto di corrispondenza possibile tra le immagini meccanicamente ottenute ed il reale.
E mentre il progresso tecnologico da una parte mira, anche con l’introduzione del colore, ad una riproduzione sempre più fedele al reale perfezionando ed innovando, dall’altra parte una serie di fattori culturali, sociali, storici spingono per un continuo aggiornamento del concetto stesso di realtà indipendente dalla fedeltà riproduttiva.
Forse per questo l’avvento del colore non ha messo in pericolo la valutazione realistica delle immagini in b/n, risultando la loro visione in definitiva più coerente con l’idea astratta del reale che ci siamo costruita escludendo ogni referenza ai suoi colori.
Rudolf Arnheim parla di due diversi schemi percettivi attivati uno dall’immagine colorata e l'altro dalla visione della realtà, dai quali si deduce che nella realtà ogni elemento pare inglobare in sé il proprio colore quale fattore intrinseco e non come artificiosa aggettivazione: l’aggiunta del colore, mentre rende l’immagine più prossima al reale, la obbliga ad un confronto più ravvicinato con esso, confronto nel quale la colorazione sembra emergere non già come traccia cromatica delle cose, ma aggiunta autonoma e superflua che poco influisce sulla corrispondenza mimetica, sulla capacità di mostrare qualità della realtà che il b/n non possa denunciare, cosicché la dimensione cromatica non avrebbe alcun ruolo sul piano della rivelazione del visibile.
Specie in passato “Il colore è stato spesso considerato non come un elemento che consentiva di cogliere una qualità aggiuntiva del reale, cioè la sua dimensione cromatica («il prato è verde»), ma piuttosto come un elemento che rischiava di minare alla radice la possibilità di cogliere qualsiasi qualità del reale(«quella macchia di verde è ancora un prato?»)" ("Vedere il mondo come un film a colori ", Federico Pierotti).
A partire dagli anni ’60, però, le cose cambiano, tuttavia “la svolta non è da intendere nella logica del più di reale, come aggiunta del colore a un mondo che può già essere colto realisticamente nella dimensione del bianco e nero, bensì come adeguamento della rappresentazione a un nuovo modo di vedere che negli stessi anni alcuni cambiamenti epocali stanno imponendo all’attenzione. Uno dei fattori determinanti del salto di paradigma è insito nell’attrazione reciproca che proprio in questi anni si realizza tra il mondo degli oggetti e il mondo delle immagini: man mano che il colore viene considerato con maggiore attenzione nella produzione industriale dei beni di consumo, esso si afferma parallelamente come presenza sempre più significativa nel mondo delle immagini, innescando una ’spirale della crescita’ su entrambi i livelli.” (idem)
Se, a seguito di ciò, il b/n, con il suo carattere di realismo tonale (che Pierotti contrappone al carattere timbrico del colore), assume “uno statuto storico, evocativo, citazionistico o nostalgico”, questo non fa che rafforzare l’attrazione che proviamo guardando un’immagine in b/n, evocazione nostalgica tra percezione, psiche, cultura, memoria davanti alla quale torniamo a sognare quel sogno che ognuno di noi custodisce nel proprio immaginario.
Dopotutto, la vita è sogno.
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