Fotografo
per professione, Begnoni non lo è più - nudo e crudo - per suo diletto
e per sua ricerca. È comprensibile che prenda le mosse da materiali fotografici,
ossia il suo pane quotidiano che sa bene come sfornare cotto a puntino; ma è
altrettanto logico che tenda a superarli, quando può, per deviare quanto
possibile dalla prevedibile routine professionale, quella sì inevitabilmente
commerciale. Così nascono queste elaborazioni: grandi stampe curate,
doppie esposizioni, sottili interventi manuali di colorazione ogni volta un poco
differenti - di modo che non si può parlare mai di multipli, per quanto
a bassa tiratura, neppure quando due pezzi apparentemente si somigliano, perché
ognuno invece è con orgoglio un pezzo unico ed irripetibile. In tempi
di facili clonazioni, ciò è già indice di un atteggiamento
controcorrente: dal punto di vista tecnico, ma anche da quello creativo. È
un magnifico segnale di lentezza operativa: di preventivo calmo accumulo di forze,
di metodica osservazione dell'intorno, di silenziosa maturazione delle scelte,
di attesa paziente di conferme, di concentrate cure metodologiche nella fase esecutiva,
ancora di trepida sospensione del giudizio finale. È per questo motivo
che le immagini di Begnoni, le poche che escono dalla sua frugale fucina, una
volta che si mostrano scavano e lasciano il segno in chiunque se le trova davanti.
Sono quanto di più lontano si può immaginare dalle istantanee dei
reporter che catturano attimi fuggevoli; ma anche dai costruiti still-life pubblicitari;
e pure, figuriamoci!, dai tanti glamour posticci di moda, così come da
altri algidi o aridi concettualismi. Si capisce bene che non sono improvvisate,
che non sono frutto di colpi di fortuna casuali, che non sono certo costruite
per piacere e vendere, che non sono insensate. Anche senza andare a leggerne
i titoli, al primo colpo d'occhio si intuisce che queste rappresentazioni sono
profondamente significanti. Più o meno enigmatiche, più o meno coinvolgenti,
più o meno emozionanti, più o meno inquietanti, persino più
o meno disturbanti, di sicuro non lasciano indifferenti: ti bloccano davanti a
loro, ti trattengono, ti interrogano nell'intimo, ti preoccupano pure, e ti lasciano
andare solo dopo averti, almeno un poco, mutato. Ti colpisce la loro ampiezza,
ti penetra la loro profondità. Le riempie, paradossalmente, l'abbondanza
di "vuoti". Il risultato è come una inattesa dilatazione dello
spazio, quasi fosse una bolla rettangolare in lentissima, lentissima espansione.
È come una sospensione del tempo, in quegli spazi; o un gonfiarsi dello
spazio al di fuori del tempo. Ciò che vediamo non è la realtà
banale, quella che ci circonda normalmente. È una pagina nascosta di ciò
che esiste - a prescindere da noi e dallo scorrere ordinario delle cose, delle
opere, dei giorni. È una visione che trapassa la realtà, obliquamente,
che va oltre. Però resta evidente che l'autore è un uomo,
che nella nostra realtà quotidiana vive anch'egli, e che anzi la soffre,
oltre a sognarla e a ricrearla. C'è in queste immagini una grande coscienza
del dolore, presente sulla pelle dell'umanità come un tatuaggio tribale
impossibile da raschiare via, presente nella vita come una maceria da sgombrare,
perennemente da sgombrare, un lavoro che non finisce mai. C'è la presenza
della nostra piccolezza, incompiutezza, pochezza. Ma anche, in modo speculare,
l'intuizione, come in un barlume di entusiastica speranza, che nel profondo di
noi alberga qualcosa di inspiegabilmente enorme e potente. Ce lo dice il
silenzio. O quell'unica nota primordiale, tesa, sorda, che riempie linearmente,
infinita, il tempo. E le presenze fantasmatiche che abitano tali visioni hanno
il peso della trasparenza: ovvero la purezza della semplicità nuda, del
corpo elementare, solo sangue carne pelle respiro, anzi solo forma, forse solo
contorno. Anime pulsanti al ritmo basico del cuore. L'innocenza del bambino, rotonda
come un mantra. La bellezza della donna, metafisica. L'eroica resistenza dell'uomo,
inumana. La struttura prosciugata, la più essenziale, della vita (della
morte). Non si esagera se si riconosce in queste apparizioni sospese un
anelito di trascendenza che dimentica dietro di sé, molto sotto di sé,
la frammentazione delle diverse religioni. L'unica vera materia, qui, è
l'assoluto: il sovrumano vero, non quello parziale confessionale che ognuno pretende
migliore degli altri. Quando la crepa tra i mondi per un momento si allarga,
vediamo al di là con gli occhi dell'artista, del mistico, del pellegrino
dolente, del reietto sapiente, del genio, del folle, dell'innocente assoluto,
del peccatore massimo che ha già visto tutto. Vediamo oltre quello che
credevamo il tutto. Vediamo per la prima volta? Con le sue opere, una per
una ma pure tutte assieme viste in progressione, come sono pensate e accostate,
Renato Begnoni non ci dà risposte chiare, e gliene siamo grati. Tuttavia
ci suggerisce - con sospesa buona educazione, ma insieme con vigoroso empito evocativo
- una calca di importanti domande, oltre a una dolce spinta verso l'impegno sociale,
e dobbiamo essergliene molto riconoscenti. |