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La soggettività dell'obiettività
di Vilma Torselli
pubblicato il 03/08/2006
"Non colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l'analfabeta del futuro". (Walter Benjamin che cita Laszlo Moholy-Nagy)



La fotografia rappresenta oggi la forma di comunicazione più diffusa e più efficace in una civiltà dell'immagine, per usare una definizione abusata ma appropriata, che privilegia la visione come forma di conoscenza.

Dando per superata, in modo definitivo, senza rimpianti e con buona pace di Walter Benjamin, l'idea di un'aura dell'immagine legata alla sua unicità, anacronistica e riduttiva in una società della cultura di massa in cui tutto è alla portata di tutti, la fotografia ha minato il concetto dell'esclusività del pezzo unico fruibile da una elite ristretta e privilegiata ed ha invece affermato quello di un oggetto, artistico o semplicemente comunicativo, che, riprodotto indefinitamente in un numero illimitato di esemplari, dà vita a pezzi tutti 'autentici' ed in un certo senso 'unici'.

Per la verità va detto che Benjamin non lega alcun giudizio esplicitamente negativo ad un processo che, prima che culturale, è di natura storica e sociale e non modifica sostanzialmente il concetto di arte visiva intesa come scambio di comunicazioni mediante un linguaggio segnico.
Nel caso della fotografia ciò è accompagnato da un valore aggiunto rappresentato dal fatto che l'illimitatezza quantitativa si lega ad un livello qualitativo immutato dalla prima all'ultima copia, il che non avviene, per esempio, per la riproduzione litografica o serigrafia, che comporta un progressivo scadimento del risultato.

Questa rivoluzione copernicana indotta dalla riproducibilità tecnica dell'immagine si è legata ad una crisi del concetto di soggettività causata da una supposta capacità della fotografia di riprodurre la realtà oggettiva in quanto medium meccanico e come tale delegato al compito di copiare fedelmente un modello nel modo più neutro possibile: non a caso, il termine 'obiettivo' (o l'equivalente 'obbiettivo') è aggettivo qualificativo con significato di " imparziale, oggettivo, basato sui fatti ' - definizione tratta da 'De Mauro, dizionario della lingua italiana " - ed al tempo stesso sostantivo che identifica quella parte della macchina fotografica, l'obiettivo, appunto, attraverso la quale il fotografo guarda e restituisce in immagine ciò che osserva.

Tuttavia, a partire da Cartier-Bresson e da tutta una generazione di fotografi suoi contemporanei con i quali si sono consolidati due fondamentali filoni espressivi, la documentazione - di eventi o personaggi - e la rappresentazione, per immagini, di situazioni e stati d'animo, il dibattito tra oggettività e soggettività nella fotografia pare risolto e oggi non sussistono dubbi sul fatto che l'autore inevitabilmente eserciti personali e soggettive opzioni sulla scelta del frammento di realtà che decide di fotografare, sulle condizioni di luce, sul punto di vista e su una lunga serie di situazioni variabili nelle quali trascrivere la propria visione del mondo, lo stato d'animo, le intenzioni, la cultura, il vissuto, insomma uno stile personale, soggettivizzando inequivocabilmente il risultato finale.

"Secondo Barthes, quando si dice che la fotografia è un linguaggio si dice qualcosa di vero e falso al tempo stesso: falso in senso letterale, poiché l'immagine fotografica è analogica rispetto a ciò che rappresenta, e dunque non comporta nessuna unità elementare discontinua che si possa chiamare segno; vero, nella misura in cui nella fotografia sono soprattutto la composizione e lo stile a funzionare come un linguaggio. Lo stile ci dice così di una specificità del segno fotografico che non appartiene alla dimensione della denotazione, bensì a quella della connotazione. In questo senso, lo stile come linguaggio proprio della fotografia mette innanzi tutto in gioco la problematica della soggettività".(Patrizia Calefato / scienze e tecnologie della moda /fotografia - Camera lucida: note sulla fotografia).

Al pari di ogni altra forma di scrittura, la fotografia è quindi un linguaggio con spiccate diversità grafologiche legate alla presenza di un autore, del suo intelletto e della sua personale emotività che invoca il diritto alla soggettività, mezzo per articolare un discorso per immagini fatto di rimandi, metafore, allusioni nel quale, come asserisce Wim Wenders, "c'è la presenza di chi viene fotografato e di chi sceglie l'inquadratura e scatta".

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Il commento di seguito riportato, a firma di Miro Dragan, correda il mio scritto di una serie di informazioni e precisazioni (reperibili anche in Wikiquote) senz'altro utili ad una più completa documentazione per il lettore, anche se ininfluenti alla comprensione del mio testo. Che parte dalle considerazioni sulla riproducibilità dell'immagine formulate da Benjamin, il quale avrà avuto i suoi buoni motivi per 'appropriarsi' di una frase altrui manifestatamente dichiarando di condividerla facendola propria, tanto che la scrive "senza riportare il nome di Moholy-Nagy".
Alla luce di ciò, mi permetto di contestare il fatto che la citazione si possa definire 'errata', in quanto riportata effettivamente da Benjamin, seppure in seconda battuta.
E' Benjamin che fà sue le parole di Laszlo Moholy-Nagy, ed io riferisco parole di Benjamin che a sua volta riferisce parole di Moholy-Nagy. La funzione introduttiva della frase, che risulta in un certo senso doppiamente autorevole, non cambia chiunque l'abbia pronunciata, nè cambia la sua pertinenza all'argomento.
Tant'è che lo stesso Benjamin, come rileva Dragan, non giudica necessario citarne Moholy-Nagy quale autore, evidentemente ritenendo che essa valga per entrambi come espressione di un concetto condiviso e che non ci sia copyright sulle parole con il quale viene espresso.

Scrive Miro Dragan:

"L'aforisma attribuito a Walter Benjamin a margine dell'articolo "La soggettività nell'obiettività" a cura di Vilma Torselli è erroneo."
Nel 1931 Walter Benjamin pubblica nella rivista berlinese Die literarische Welt un saggio dal titolo Piccola storia della fotografia che si conclude riportando e commentando una frase del pittore e fotografo ungherese, attivo a Berlino, Laszlo Moholy-Nagy: “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro
L’artista proclama l’avvento della società della visione e dei suoi nuovi linguaggi; Benjamin commenta causticamente: “Ma un fotografo che non sa leggere le proprie immagini non è forse meno di un analfabeta?” riportando l’indice dell’attenzione sulla capacità di comprendere i contenuti.

Tutto questo è contenuto nell’edizione italiana (Einaudi ed. 1966/ 91/ 2000), W. Benjamim, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dove Benjamin, senza riportare il nome di Moholy-Nagy, scrive:
 “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia -è stato detto- sarà l’analfabeta del futuro” ed aggiunge:”Ma un fotografo che non sa leggere le proprie immagini non è forse meno di un analfabeta? La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine?
Segue.....

Miro Dragan
Contatti: mirodragan@libero.it


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