Pare che il fatto che un artista sia pazzo o affetto da un
qualche importante disturbo psichico non comporti particolari
difficoltà di comprensione della sua opera da parte
di un normale spettatore, almeno a giudicare dall'unanime
consenso che circonda le opere di Van Gogh, Munch, Kirchner,
Bekmann, Ligabue, per citare solo alcuni degli artisti più
o meno seriamente disturbati, alcuni addirittura morti suicidi:
come lo stesso Van Gogh, sulla malattia del quale le diverse
ipotesi mediche formulate sono generalmente poco convincenti,
che dipinge un quadro di straordinaria potenza, "Campo
di grano con volo di corvi", venti giorni prima di
quella domenica, 27 luglio 1890, in cui si sparerà
un colpo di pistola al petto, morendone due giorni dopo.
Verrebbe da chiedersi se la creatività, in questi
casi, sia una causa o un effetto della follia, se vi sia contrapposizione
fra questi due momenti, come si concilia il momento disgregativo
e autodistruttivo con il momento in cui si richiede la formalizzazione
dell'esperienza con l'esercizio di una capacità costruttiva,
anche dal punto di vista tecnico, con l'utilizzo di determinati
strumenti, il pennello, il colore ecc.
Non è chiaro come avvenga la con-fusione tra questi
due momenti, tant'è che avviene, e l'artista, seppur
folle, produce opere di straordinaria bellezza, superando
in quel momento il suo disagio psichico e la disgregazione
della sua mente malata: è questo il principio sul quale
si fonda l'azione di mediazione dell'arte-terapia, una disciplina
sulla cui efficacia oggi non pare esserci dubbio.
Ma potrebbe anche essere vero che un folle sia il soggetto
più adatto per comprendere l'opera di un folle, soprattutto
se analizziamo il rapporto Van Gogh-Antonin Artaud.
Antonin Artaud era un malato psichiatrico, più volte
sottoposto all'elettroshock, etichettato come squilibrato
dalla scienza del suo tempo, un matto che un giorno del
1947 (morirà un anno dopo, internato a Ivry-sur-Seine)
visita una retrospettiva di Van Gogh allestita al Museo
dell'Orangerie a Parigi e, dopo pochi giorni, scrive un
saggio su di lui, "Van Gogh, le suicidè
de la sociètè", nel quale, con impressionante
lucidità, sviluppa una disamina approfondita della
sua opera pittorica ed al tempo stesso una secca denuncia
delle repressioni di una struttura sociale ipocrita che
soffoca il diverso e bolla come folle il singolo che vuole
emanciparsi da un sistema che lo rifiuta.
Come per Van Gogh, anche per Artaud la realtà è
un malefico incantesimo in cui viviamo come in un "affatturamento
globale", i cosiddetti sani si servono della psichiatria
e dei manicomi per sbarazzarsi di individui "pericolosi",
traumatizzandoli ed accentuando la loro tendenza all'autodistruzione,
minandone l'equilibrio mentale e portando all'esaperazione
le loro angosce esistenziali: le esplosioni di insofferenza
diventano così il delirio di una malattia cronica,
la follia.
In Van Gogh, Artaud coglie la straordinaria capacità
percettiva di una realtà al di là dell'apparenza,
una sensibilità che va diritta al profondo dell'animo,
che scava nella psiche in subbuglio, in immedesimazione simbiotica
con l'anima del mondo: è un sentire irrazionale, nel
quale Van Gogh, come Artaud, cerca invano un rapporto con
sé stesso.
Il folle Artaud è più vicino di chiunque altro
a Van Gogh nella sua comprensione emotiva e identificativa
con lui, quando istintivamente legge nei dipinti dell'olandese,
al di fuori delle categorie della psicopatologia e della psichiatria,
la lotta de "la magia bianca che intende neutralizzare
la magia nera della società", una lotta persa,
Van Gogh soccombe, il suo ultimo grido disperato è
quello dei corvi neri che volteggiano sul campo di grano,
e la società lo "suicida", eliminando un
componente scomodo estraneo al sistema.
Trovo straordinario e commovente questo dialogo a distanza
tra due individui soli, disperati, malati, che hanno saputo
cercare dentro di sè verità insospettate, con
coraggio, umiltà e sofferenza, anomali e diversi, certamente,
dal resto del mondo, da un'umanità che, come diceva
Artaud, "........ non vuole darsi il fastidio di vivere....,
ha preferito sempre accontentarsi di esistere".
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