Deve esser chiaro che la Biennale di Venezia non necessita
di ulteriori approfondimenti nella sua veste ufficiale, in
quanto cioè evento internazionale, fermata d'obbligo
per mosquito e arti visive.
La uso, la Biennale, questa volta, come semplice sede di opere
di artisti (per quanto la Beecroft non fosse interna alla
kermesse) dei quali avevo voglia di tratteggiare una breve
presentazione - spesso doverose, a volte per meritocrazia
altre per sola notorietà maxima.
NICO VASCELLARI
(Vittorio Veneto, 1976. Vive tra V.V., Bologna e New York)
Giovane (qualche diceria induce a inventariare come giovani
gli artisti che non abbiano superato il 35simo anno di vita)
e veloce.
Alterna, mischia, combina e confonde tra loro sonorità
hardcore/postpunk (è frontman del gruppo With Love),
video, performance e installazioni, in ordine sparso.
Poco prima che questo nodo nervoso si ecciti ulteriormente,
che quest'insieme di umori maligni si coaguli per diventare
residente, inamovibile e poi stantio, il nostro lo sputa fuori
assistendo attento e curioso al tipo e grado di coinvolgimento
che questo ennesimo rigurgito traboccante eserciterà
su sé e sugli astanti tutti.
Non è però bene ritenerlo un multimediale (che
suona offesa peggiore di questurino) perché, dice,
"
se guardo sopra voglio anche guardare sotto. Dentro
e fuori. E' sempre una questione di piani e livelli".
Che magari potrebbe somigliare, la questione, a un grosso
pentagramma in cartongesso dove il suono cerca di entrare
anziché uscire, di sostare tra un piano e l'altro,
sdraiato a faccia in giù, sino a cominciare a sudare
tanto, a sciogliersi per poi non esserci più
Visioni a parte, dire "cosa fa" Vascellari non è
cosa pensabile/possibile.
Posso però assicurarvi che, nonostante la febbrile
attitudine performartiva e l'agitazione dell'immobilità
di certe foto, nonostante quindi l'evidente bisogno di esserci,
di fottersi corpo e cervello standoli a guardare mentre gridano
o si segregano nel buio primario di zona, Vascellari è
bravo dopo, ad esserci quando non c'è più. E'
piacevole, quanto si sente quando tutto è finito, gli
odori e i silenzi che lascia lì, la solitudine di gruppo
inalienabile e forte.
Vascellari potrebbe essere un Genesis P. Orridge che esce
con Jello Biafra e Gary Numan per andare al drive-in a vedere
il Bad Karma di Chandon e poi al concerto di Boris Ex Machina.
O forse è solo un tipo che va coi Vascellaris a farsi
una pizza dove l'insegna è fatta di neon e glitter.
VANESSA BEECROFT
(Genova, 1969. Vive a Los Angeles)
In occasione dei giorni inaugurali della Biennale, la Beecroft
ha presentato, presso la Pescheria di Rialto, "VB 61
- Darfur Still Death! Still Deaf?".
Immersa tra i suggestivi effluvi ittici del luogo, la nuova
performance - dedicata ai massacri africani e più precisamente
al genocidio del Darfur, regione del Sudan - di uno degli
artisti più affermati del mondo, vedeva circa 30 donne
sudanesi sdraiate a pancia in giù, su di una grossa
tela/palcoscenico. Immobili, senza muoversi e fiatare, circondate
da pennellate e schizzi di sangue rosso sangue, le modelle
come morte della Beecroft hanno sicuramente ben chiarito lo
stato di patimento zitto che un paese - tra sventramenti e
esecuzioni altre - può, DEVE, sopportare. E lei, l'artista/regista/coreografa,
era lì, in ossequioso silenzio anch'ella e forse un
po' incazzata o impegnata o concentrata. E pareva che quella
sua fissità, quel suo non batter ciglio, fosse quello
che decideva il da farsi, che imponeva l'unanime fine a terra:
tutti giù per terra, tutti sottoterra.
La Beecroft è un direttore d'orchestra che (da sempre)
recluta ragazze abbigliate e disposte in modo da sembrare
identiche una all'altra, per una visione attuale dell'idea
di bellezza e dei suoi modelli, sempre più indistinguibili,
seriali, pubblicitari. Una bellezza che non esiste più
perché ne esiste troppa, uguale a quella di ogni altra
"figura" presente.
Per chi è certo che le fighe siano Jlo, le veline e
le Corona's girls, le performance della Beecroft possono aiutare
a trasformare l'abitudine in superstizione.
Di recente l'ambiente artistico è stato tenuto ad
assistere a una serie di disgrazie dal tenore decisamente
greve, accadute per di più in una successione ravvicinata
che non ha fatto che ispessire ulteriormente la tragicità
di un periodo decisamente maledetto, per l'arte. Perché
anche se avvenimenti simili accadono di continuo, in qualsisi
parte del mondo e in tutte le "stanze di lavoro",
la prossimità dei percorsi intrapresi (professionali
in questo caso) sa creare una sorta di istintuale vicinanza
umana, illustre assenteista invece - e nell'arte il fondo
di tale vuoto è sempre più profondo - nel mondo
dei colleghi che sono ancora tra noi, liberi e sani.
Queste poche righe inutili vogliono render conto di questo,
di quanto cioè sarebbe più bello e più
utile esserci anche quando non serve, sentire vicinanze che
non debbano venir minacciate da rivalità inconcludenti,
snobismi da consorterie condominiali e tutte le altre minchiate
tipiche (purtroppo tipiche) di certi approcci dell'uomo all'uomo.
Perché, sennò, diventiamo tutti patetici e scontati
come le rassegne cinematografiche dei registi morti la notte
prima.
Queste poche righe inutili salutano:
Fred Torres
Príamo Lozada
Alessandro Riva
Maurizio Sciaccaluga
|