Nonostante l’etichetta preveda che la voce ‘arte’ interessi canonici ambienti d’espressione, quelli più frequentemente battuti ogni qualvolta ci si debba occupare di creatività, ho sempre ritenuto opportuno estenderne le pertinenze oltre la moderazione di una taratura ormai un pò datata.
E’ per questo che la lettura di un libro come “La vera fabbrica dei corpi” (Bill Bass & Jon Jefferson, ed. Tea) può diventare la testimonianza dettagliata di una tra le configurazioni non accademiche dell’arte, specie se concordiamo nel ritenere quest’ultima una stimolazione utile alle pulsazioni vitali.
Siamo nel 1980 quando Bill Bass, antropologo americano, concepisce e fonda un laboratorio, “the Body Farm” appunto, allo scopo di analizzare la decomposizione dei cadaveri in ogni condizione possibile, riuscendo nel corso degli anni a divenire fonte di primaria importanza legale grazie alle informazioni che la medicina forense può sfruttare al fine di definire le principali caratteristiche di una salma (sesso, razza, età, statura) e quindi avanzare con le indagini alla ricerca di cause e/o colpevoli del decesso.
Se artisti più propriamente detti, come Hirst, i fratelli Chapman o Witkin ad esempio, hanno fatto della morte un’opera d’arte dal forte potere liberatorio e comunicativo, il lavoro di Bass non deve esonerarsi dai censimenti dell’arte poiché qui più che in tanti musei, in questa fabbrica di corpi morti, fine e distruzione servono la vita in modo sicuramente meno sgargiante, ma altrettanto indubbiamente più proficuo di quanto non riesca a fare la metodicità forzata dell’etichetta “arte”. |