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Scelgo di vedere il ghiaccio leggero
che nasce la notte e che ogni mattina, guardando dal vetro
di ogni finestra, compare decorativamente sui rami anoressici
e il verde ad aiuola.
Ancor peggio scelgo di includere lei, la solita arte, tra i
piaceri portati da questi giorni di festa corti.
A Rivoli c'è il Castello di Rivoli, uno dei maggiori
centri (non solo a livello nazionale) per l'arte contemporanea,
responsabile dell'allestimento di mostre memorabili (ora
in corso Claes Oldenburg & Coosje van Bruggen - "Sculpture
by the Way", mostra visionaria e organica della quale
non vi dirò per questioni di spazio, restando così
in tema con la mostra stessa, perché anche non parlando
si può parlare, purché i perché del
silenzio siano quelli giusti
), dotato di una biblioteca
da eiaculazione e di un bookshop da erezione.
A quest'ultimo il vostro puntava, deciso ad accaparrarsi una
copia di "Form Follows Fiction", catalogo edito
da Charta in occasione della mostra omonima tenutasi al castello
a fine 2001 e curata da Jeffrey Deitch, brillante mente newyorkese
responsabile in precedenza del "caso" espositivo/filosofico
di fama mondiale "Post Human".
Ebbene, "Form Follows Fiction", dicevamo.
In questo progetto Deitch sostiene e dimostra come la forma
(dell'arte) segua da qualche tempo la FINZIONE, piuttosto
che la funzione, come diceva il Modernismo.
Attraverso una selezione di artisti internazionali, l'idea
e poi la mostra riflettono su quanto vada sempre più
dimagrendo il confine ubicato tra il regno della realtà
e quello della finzione.
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In altre parole, se già la realtà si avvale
della fiction, dei canali preposti alla spettacolarizzazione
del tutto (pensiamo ai processi trasmessi in tv, ai reality,
agli atteggiamenti ed i comportamenti che con costante insistenza
tendono a replicare quelli dei vip), l'arte segue l'esempio
ricorrendo con non poca frequenza alla messa in scena, alla
rivisitazione di un "prima", di un già
esistito costruito dal merchandising dei palinsesti, all'utilizzo
dei sistemi tipici delle simulazioni attuate dai mass-media.
Già nel '95 Ghezzi , nel suo corso sulla comunicazione,
diceva che "
dovremmo provare a considerarla
[la televisione]molto più un sistema reale, un sistema
della realtà, che non un mezzo per trasmettere, per
comunicare, per far arrivare messaggi."
E così è, oggi, no?
Quanti di voi se la sentirebbero di disdire un appuntamento
concordato con mrs television, con the box, la sera che lei
- non essa - trasmette quello che vi piace, che sa tenervi
attaccati alla superficie elettrica e fresca del suo volto
cangiante, adattabile, adattato? Sapreste rinunciare a questa
pellicola quotidiana che copre gli occhi coi suoi pochi millimetri
di spessore per proiettarvi sopra le immagini definite che
devitalizzano irrecuperabilmente l'approccio al senso del
reale?
L'arte, volontariamente e coscientemente, no.
Un po' per critica un po' per convenienza, le arti visive
contengono casi eclatanti di geniali rivisitazioni e/o riletture
di condizioni cinematografiche o televisive, dei loro stilemi
che vengono prelevati dal contesto d'origine e applicati a
quelli preferenziali, o solo preferiti, dell'arte (processo
questo non distante da quelli dada).
Se Orson Welles aveva fatto il contrario quando, nel 1938,
presentò alla radio senza preavviso un adattamento
de "La guerra dei mondi" che scatenò il panico
tra gli ascoltatori perché certi che l'invasione aliena
stesse realmente accadendo, attestando così il potere
inequivocabile dei media, le cui emissioni sono per forza
di cose da ritenersi vere, l'arte e a volte la vita prendono
oggi dai media e dai mezzi di finzione per far propri alfabeti
e linguaggi abituati a recitare.
L'ortografia delle immagini muta perché comincia a
parlare idiomi imprevisti, mai visti prima all'interno di
quei contesti e quei modi di (dis)fare.
Dentro l'arte quindi si fa cinema, nei suoi video si vede
tv, nelle sue fotografie si montano scenografie e si immettono
speciali effetti speciali che sembrano usciti dalla migliore
e più aggiornata fanta/finta-scienza.
PIERRE HUYGHE, nel 1999, gira "Third Memory". E'
una sorta di vero e proprio remake del film di Lumet "Quel
pomeriggio di un giorno da cani", tratto dalla storia
vera di John Wojtowicz che nel 1972 tentò di rapinare
una banca per permettere alla moglie di pagare l'intervento
per cambiare sesso (!!).
Se già la realtà sembrava, come è evidente,
FINTA, il film di Lumet ne ha ovviamente fornito una versione
ancora meno autentica, rileggendola attraverso i filtri cinematografici
e snaturalizzandola ulteriormente.
Huyghe, l'artista, anni dopo ha chiesto all'interprete reale
dell'accaduto reale, lo stesso John Wojtowicz che nel film
di Lumet era interpretato da Al Pacino, di essere il protagonista
di un nuovo filmato che avrebbe ricalcato le ambientazioni
e la sceneggiatura del film di Lumet, ma nel corso del quale
Wojtowicz avrebbe dovuto indicare come le cose fossero andate
davvero, NELLA REALTA'. "Third Memory" perché
il lavoro di Huyghe è un terzo pensare il vero, dopo
il fatto accaduto e la rivisitazione per il cinema, un ibrido
tra i due costituisce un terzo possibile metodo per ricostruire,
riprodurre, rifare.
Poi c'è CANDICE BREITZ, nei cui video l'artista replica
letteralmente le parti, le pose e le gestualità di
alcune attrici hollywoodiane o comunque di personaggi del
jet-set, dello spettacolo generico che intrattiene.
Poi c'è DOUGLAS GORDON, che rallenta/deforma il "Psycho"
di Hitchcock o che, assieme a Philippe Parreno, gira un film-documento
su Zidane.
O FRANCESCO VEZZOLI, che all'ultima biennale di Venezia proietta
un remake del "Caligula" di Vidal.
Connettendosi alle 1000 e più connessioni della fiction
in genere, l'arte ne mima le forme con l'intento di attestare
quanto sia accessibile la riproducibilità iconografica
degli uomini che vivono la finzione, di quantificare il poco
occorrente per la riedizione di un'identità, per una
ristampa del successo da montaggio. Intanto la FICTION AGE
avanza, i simulacri imparano a muoversi meglio, e noi scopiamo
con il web. Intanto storicizziamo la rappresentazione e ci
muoviamo sui momenti e sui ricordi delle invenzioni che calcano
le scene, sovrimponendoli ai pochi che ci erano rimasti.
E' inizio anno. Io ho deciso di buttar via meno parole possibili
e ho quasi smesso il tabacco.
Voi tenetevi la vita vera che avete.
Buon anno. E buona fortuna.
P.S.: Una buona lettura in merito a quanto sopra è
"L'età della finzione" di Massimo Melotti,
Luca Sossella Editore.
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