Silvia Argiolas
Giuliano Sale
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Specie nelle campagne poco battute
e quasi disabitate, nei dintorni di province dove il cielo
preferisce l'abito scuro e le residue anime residenti saprebbero
egregiamente personificare il significato di termini adulti
come "canuto" e "senile", il passato accennato
a voce, quello lontano, può riuscire a diventare mito.
Ne esistono tante, di storie e leggende così, e
spesso sono crudeli.
Come destinati a minacciare eternamente l'infanzia nuova
che avrà l'inconsapevole coraggio di abitare quei
posti poco vivi, i racconti per non dormire rubati
alla memoria di antenati andati non si dimenticano mai,
radicati profondamente come sono nei resti di terre modeste
e inestirpabili dai cuori stanchi di vite stanche che della
reminiscenza fanno fonte affidabile d'erudizione e compagnia
fidata per gli ultimi giorni.
Dalle mie parti, ad esempio, su al nord, ne esiste una
su tutte, di storia non troppo piacevole, che prontamente
i lavori di Argiolas e Sale, al di là delle differenze,
mi hanno ricordato.
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Si chiama "La strage di bimbi" e si svolge tra
Santa Margherita e Santo Stefano, dove tra il 1817 e il 1834
ottanta bambini morirono per peste e tifo. Una lapide sui
portali d'ingresso dei due paesi recita, ancor oggi, "Terribilis
est locus iste": questo è un luogo terribile.
E anche questo, questo di Lullaby, è un luogo terribile.
La fine di Alice
Una fine lunga
Come se un'icona inalterabile dell'immaginario collettivo
avesse irrecuperabilmente e doverosamente rassegnato le sue
dimissioni, la pittura dei due ideatori di questa ninnananna
noir - ambientata ai giorni nostri e tarata sulle dimensioni
esistenziali dei bambini in corso - intende provvedere ad
una nuova raffigurazione dell'infanzia che si accinge a crescere,
rappresentandone le forme e i colori (soprattutto le forme
e i colori) che con sintesi eloquente sanno restituire le
misure organiche di un mondo dalle strane tinte.
Alice, è cosa certa, non c'è più. E anche
il suo paese, quello delle meraviglie, di recente non se la
passa troppo bene. Lolita invece, dopo le attenzioni particolari
ricevute, è sempre allo stesso angolo di strada e per
quanto i clienti comincino a rarefarsi, sembra riuscire a
tirare avanti.
Oggi, ora, gli eroi adolescenziali sono costretti a fare così,
ad adeguarsi alle effettive esigenze comportamentali che il
loro universo prevede e include, senza alcuna possibilità
di sottrarvisi, di cambiare mondo.
Non è un caso che i giovani uomini della finzione attuale
siano sempre pronti a fottere e a deviare come il "Ken
Park" di Larry Clark, somiglino alla Tracy ("Thirteen")
di Catherine Hardwicke o siano tenuti a spacciare coca consegnando
pizze come il Liam di Loach ("Sweet Sixteen"). Anche
Leroy, quel/la bugiardo/a di J.T. Leroy, responsabile di un'acuta,
giustificabile e redditizia operazione commerciale, è
specchio di una contemporaneità sfatta che a quanto
pare non sa più di che farsene dei classici intrattenimenti
proibiti, del degrado abituale.
L'ultima storia "di ragazzi" che ho letto si intitola
"Bungee Jumping", l'ha scritta Gero Giglio e racconta
dell'amore timido, titubante ma profondo, tra Sole e Tommy,
tredicenni vittima dello stato delle cose (cit.: "I
miei ci violentano da anni, loro e i loro amici che ci pagano
perché ci lasciamo scopare. Presto ci porteranno via
da casa" o, peggio, "Oggi ho mangiato la
cacca di uno, fa schifo!").
Bastevole, suppongo, al fine di attestare quanto le espressioni
tutte convergano verso l'unanime necessità di dichiarare
il vero, di riflettere la portata grave di biografie inventate
prendendo spunto dal mondo autentico, dalla genuinità
di strutture e formazioni familiari che tra le loro insondabili
mura domestiche allestiscono le più perfette performance
antiuomo.
Se Bradbury riconosceva agli adolescenti il merito narrativo
di un minaccioso fascino malvagio (valga d'esempio quel "Gioco
d'ottobre" che porta alla dissezione del corpo di Marion,
"
con quei otto anni quieti. Mai una parola.
Solo quei suoi occhi grigi luminosi, quella bocca sempre atteggiata
a sorpresa") e Paolo Di Orazio li rendeva protagonisti
dei suoi "Primi delitti" splatter, gli autori più
recenti non possono che lasciarsi dietro la fantasia suggestiva
tipica del villaggio dei dannati per ricalcare un realismo
spaventosamente più incredibile dell'invenzione.
Ed eccoci al luna dark di Giuliano Sale e Silvia Argiolas,
firme giovanissime di una figurazione che ibrida il pop surrealism
di Marion Peck e Mark Ryden con le cifre cromatiche del primo
Buccella, approdando all'edificazione di un carosello turbato
che danza sulle note introverse di un carillon guasto.
I bimbi partoriti dai due sono figli illegittimi dell'era
sterile e anaffettiva che ammorba l'educazione prendendo le
distanze da qualsiasi forma (e maniera) di insegnamento utile.
Le nozioni imperanti vengono inferte come colpi d'ascia che
lasciano barcollanti i piccoli corpi esausti.
La serialità magrittiana delle creature di Giuliano
Sale, sempre con la bocca all'ingiù come se imbevute
di un'amarezza che non si toglie, vestono uniformi d'ordinanza
orientate verso l'assolvimento di obblighi certi, utili alla
società e rispettabili. I loro destini sono soggiogati
da un futuro che già ricopre le loro forme, impietrite
come figurine da collezione e stagliate su sfondi irrilevanti
simili a quelli degli ostaggi.
Silvia Argiolas invece colloca le sue giovani vergini (?)
tra gli incubi che le assediano, in mezzo a una tebaide notturna
per storie gotiche dove si è ancora ed incessantemente
soli. Le sue fiabe avrebbero potuto tenere compagnia alle
"Piccole donne uccidono" della Alcott oppure potrebbero
illustrare le interruzioni dissociative che la psicoanalisi
è solita diagnosticare con frequenza regolare. Le bimbe
acide della Argiolas non sono qui: forse come Alice, hanno
preferito abitare luoghi lontani, irraggiungibili, nascosti
tra le forme danneggiate di un altrove tutto loro.
Vedo "Lullaby" somigliare sempre più a una
nenia che a una ninnananna.
Intuisco dalle identità apparenti di questi ritratti
immobili e dai volti anonimi dei loro protagonisti - contraddistinti
da simboli misti che sembrano volerli archiviare, stiparli
nel deposito di una memoria condivisa dove l'accesso è
negato - una consumata, ingiallita abitudine all'isolamento
prima imposto e poi voluto.
Sento, tra le pareti senza spiragli di Giuliano Sale e nei
giardini delle vergini suicide della Argiolas, aleggiare cantilene
lamentose dai testi indistinti, come se anche loro risentissero
di un logorio da usura che le ha rese stanche.
Il silenzio che resta qui, dentro gli spazi allegorici di
questi bambini, può comunque aiutare a prender sonno.
Può, forse vuole, essere una ninnananna senza parole
e suoni, un accompagnamento assente tra i sentieri aridi di
un paese illogico quanto la realtà.
Ed è lì, nella realtà, che gli adolescenti
sembrano più cresciuti dei loro padri, le occhiaie
creano ombre premature sui loro volti e i bisogni infantili
sono in prognosi riservata.
E' nel mondo vero, ovvero nel peggiore dei luoghi terribili,
che succede d'aver voglia di star soli anche quando è
troppo presto per farlo.
Con l'ovvio augurio che Sale e Argiolas non vogliano decidere
di concepire figli diversi da quelli che sono soliti dipingere,
mi accingo a proseguire il mio cammino in queste terre di
mezzo, quelle dove vivono i prossimi adulti. Quelle che al
paese delle meraviglie continuano a preferire stanze chiuse
e dispersioni notturne. Quelle così vicine alla realtà
che basta poco per raggiungerle. Anche un carillon guasto.
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